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di Salvatore Fabiano
 
L’inizio della Fiera di Mare di Belvedere M.mo, in provincia di Cosenza, non è databile: sotto forme primordiali ci sarà sempre stata e man mano le tecniche e le esigenze, sempre più moderne, hanno fatto il resto. Si festeggia San Daniele Fasanella, Patrono della città morto decapitato a Ceuta, insieme ad altri frati francescani missionari.
 
"Le squadre sono pronte per affrontare le fatiche annuali. Trasporto a spalla del legname dai magazzini, ove è depositato dall’anno precedente, fino alla piazzetta della Marina. Manovali, falegnami e maestri d’antico mestiere iniziano le loro opere. Costruiscono le baracche che dovranno ospitare per giorni tutto quanto formerà oggetto di compra-vendita. Saranno dei negozi degni di questo nome. Pareti sicure, copertura a tenuta, scaffali, bancone e perfino angolo per il frugale pranzo. Ove necessario si ricava un posticino con una tendina per le prove degli indumenti. Capolavori costruttivi che i nostri artigiani hanno ereditato dal sapere e dalle capacità dei loro antenati.
 
Per noi ragazzi una serie infinita di curiosità e di ammirazione. Vedevamo nascere, sotto i nostri occhi, un borgo di puntali di legno fissati a terra e di tavole inchiodate l’una sull’altra. Ai tempi in cui ero studente di scuola media, ed erano gli anni cinquanta, la finestra della mia classe aveva l’affaccio sulla Piazza. Spesso gli insegnanti ci dovevano richiamare ad una maggiore attenzione in quanto ci distraevano i canti dei lavoranti, il loro comunicare ad alta voce e persino le loro bestemmie.
 
Era una scoperta speciale per quelli come me che, cresciuti nel centro antico, erano abituati a vedere le baracche già attive nei giorni della Fiera. Vederle nascere era molto affascinante. Il nove ottobre mattina era tutto pronto per iniziare a funzionare in coincidenza con la cosiddetta Fiera degli animali.
Alcune baracche erano costruite per poter ospitare improvvisati posti di ristoro. Avevano una parete poco in vista con larghe aperture  dovendo comunicare con la cucina sorta quasi all’aperto. Un bancone serviva per la somministrazione del vino ed alcuni tavoloni da muratore, ancorati al terreno su dei paletti, fungevano da tavoli collettivi per la consumazione del cibo.
Il piatto principe era costituito dallo spezzatino di interiora di pecora o capra. Si preparavano anche i primi di pasta con sugo di carne. Le seconde portate erano in genere baccalà e peperoni fritti.
Un'usanza gustosa che, nonostante il progresso e la ricchezza successiva, è rimasta a testimoniare una storia piacevole. L’igiene lasciava molto a desiderare: lavaggio sommario nell’acqua del mare, pulizia successiva in acqua dolce alla “fontana dei ciucci”.
 
Come già accennato, dal 9 al 12 ottobre si teneva la Fiera degli animali. I luoghi erano il tratto di spiaggia tra il Gafaro ed il piazzale del Consorzio Agrario.
Vitelli di ogni età, pecore e capre, ma anche maiali, sebbene per questi ultimi la tradizione li collocasse alla successiva festa di S. Antonio Abate.
Si  commerciavano anche asini, muli e cavalli.
Anche nel vecchio borgo la ristorazione tradizionale a base di spezzatino, peperoni e baccalà non mancava. In fondo il Santo era nato nel mio quartiere Vallata e bisognava certamente onorarlo allo stesso modo.
 
Voglio ricordare i personaggi simpatici e laboriosi che gestivano le botteghe, dette cantine, che operavano nel Centro Storico: Peppino  alle Scale, Carmela ntà Chiazza, cuore pulsante del borgo, e Lauretta all’Annunziata. Una cantina-bettola  merita di essere ricordata più delle altre per l’alternarsi continuo di gestioni: iniziò zi Peppa , poi la nominata Carmela, quindi Maddalena e Ciccillo, infine Rosaria e Peppe. Completava il quadro Rosaria  all’Acquaro.
Inventarono anche il prodotto culinario da asporto per chi non voleva “mischiarsi al volgo” per via della  posizione “altolocata”. Belvedere precursore di civiltà….anche in questo caso.
 
Una presenza tradizionale, protrattasi fino alla fine del secolo scorso, era rappresentata dalla comunità nomade le cui carovane giungevano già all’inizio del mese di ottobre. Si insediavano lungo il torrente Gafaro, sotto i ponti ed iniziavano le loro attività artigianali. Ferro lavorato per tripodi, zappe, vomeri ed utensili vari. Le lamiere zincate servivano per produrre coperchi, mestoli, setacci ed altri attrezzi da cucina. Avevano inizio così le loro scorrerie nel centro storico per marcare la loro presenza e vendere i loro ricercati prodotti. Gli aneddoti sulla loro vita, tanto diversa dalla nostra, si sprecavano, compresa la paura che incutevano per i presunti sequestri di bambini. Era un modo, per tanti genitori, per tenerci a freno e nei pressi delle nostre abitazioni. Il loro folklore, durante le feste serali, attirava la curiosità degli abitanti del posto. Canti, suoni, balli e i loro vestiti variopinti erano molto ammirati.
 
La prof.ssa Teresa Rogato, ha scritto  belle pagine sulle feste per i loro matrimoni. In particolare Teresa narra dell’arrivo trionfale, su carri ben addobbati, con il loro capo Benedetto alla guida della carovana. Provenivano dai paesi della Valle dell’Esaro e dalle pendici del Pollino. Infiocchettavano gli animali da traino ed esponevano le selvagge bellezze delle loro giovani, tutte vestite a festa con gli indumenti multicolori della loro tradizione.
A volte si celebravano a Belvedere i matrimoni dei loro giovani. Una ragazza di 15 anni con un giovane di 18 erano la norma. L’unione era combinata e si spegnevano - dice Teresa Rogato- le aspirazione della fanciulla che, magari dall’anno precedente, aveva sognato di andare in sposa al figlio del macellaio di Belvedere, avvistato, forse ad esso promessasi e sognato per tutto l’anno.
Il banchetto nuziale era tenuto all’Eldorado di don Gaetano Jaconangelo sul Lungomare, attuale Bar Scoglio. Brindisi, scambio degli anelli, pranzo, canti e balli.  Aggiungo che si celebrava un rito propiziatorio con il bastone del comando di Benedetto poggiato a terra e gli sposini che vi ballavano lateralmente e separatamente senza superarlo. Non so darne la spiegazione! Alla gente che giungeva per assistere si offrivano frittelle di farina di mais per buon augurio.
Alla fine un grande cappello posto al centro della sala per la raccolta del danaro  in dono agli sposi. Quando il tempo regalava la sua clemenza, tutto proseguiva sul piazzale fino al ponte del Gafaro, ove era posto il carro riservato ai novelli sposi. Un grande falò veniva acceso ed attorno la festa si completava. Finiva di certo l’illusione di due giovani, costretti a quell’unione, ma iniziava comunque una nuova famiglia.
 
Sul marciapiedi attorno al Palazzo Zito, ora centro d’arte il Faro, si piazzavano di buon mattino le donne che arrivavano dalla vicina Diamante con le loro specialità: alici e sarde salate poste in tinozze di legno, panetti di farina di castagna, castagne infornate o bollite, lupini. Vere prelibatezze per grandi e piccini. Ricordo qualche commerciante uscire dal negozio di generi alimentari con le fette di pane aperte, farsele farcire di alici o sardine ed avviarsi poi alla baracca che vendeva vino. Le venditrici diamantesi sostavano fino a sera, fino cioè alla partenza dell’ultimo sbuffante autobus. Le rivedo con una coperta o un’incerata logora sulle gambe per proteggersi dalle intemperie.
 
Immancabile il venditore di biglietti della fortuna. Un anziano signore armato di fisarmonica e di una gabbietta con dentro un pappagallo di nome Lorito. La gabbietta presentava al suo margine basso uno sportellino con dei biglietti stampati. Erano colorati a seconda dell’età, dello stato civile e del sesso dell’acquirente. La bestiolina ammaestrata metteva il becco nel contenitore e prelevava il bigliettino adatto. Qualche frase a mò di oroscopo e tre numeri da giocare al lotto. Dopo ogni sosta, il venditore di sogni, riprendeva il cammino tra le baracche con un invariabile suono della fisarmonica.  “Comprate la fortuna o brava gente,/ compratela versando quattro soldi!”/ e l’uccellino, certo, ammaestrato/ sembrava avere il becco fortunato”. ( Da una poesia del mio prof. Giuseppe Rogati).
In seguito venne anche la roulette sotto i ponti, ma eravamo già nella modernità.
 
“Il venti ottobre la statua del Santo protettore ritorna al Convento ,e si smonta tutto il villaggio di legno. Mestamente arrivederci al prossimo anno.
Scene di un mondo sparito che resta solo nei meandri della mente di quelli della mia età: bambini di allora!”
 
foto Egidio Rogati
 
 

 

 

di Sergio Melchiorre


Pietro Mazzei, nato ad Avetrana in provincia di Taranto il 22 luglio 1910, assunto nel 1943 come portalettere nell’ufficio postale di Forlimpopoli, dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, aderì alla 9a Brigata «Santa Justa», una formazione partigiana autoctona e stanziale, che operò sull'Appennino a sud ovest di Bologna.

La piccola Brigata, composta da circa 400 effettivi e comandata da Giuseppe Nucci, compì numerosi sabotaggi nelle retrovie tedesche, seminando chiodi a tre punte sulle strade percorse dai camion militari, danneggiando la linea ferroviaria Porrettana e, soprattutto, incendiando depositi di carburante.

 

(9a Brigata Partigiana «Santa Justa»)

Nella notte tra il 14 e il 15 novembre 1944, durante un rastrellamento delle S.S. a Manzolino, una frazione di Castelfranco Emilia, dove il Mazzei risiedeva, il Partigiano avetranese venne catturato e, successivamente, fucilato. Il suo corpo venne ritrovato casualmente due anni dopo a Mongardino (frazione di Sasso Marconi, dove all’epoca dei fatti si trovava il comando tedesco) quando, durante alcuni scavi eseguiti per la costruzione di una casa, venne scoperta una fossa comune con sei cadaveri. Il cadavere di Mazzei fu riconosciuto dalla moglie Licia grazie agli abiti che il marito indossava. I resti del Partigiano avetranese furono etichettati con il numero tre.
Mazzei inizialmente trovò degna sepoltura a Mongardino ma successivamente la moglie e il padre chiesero di poter trasferire la salma.
Presso il comune di Sasso Marconi però non esiste nessuna documentazione che certifichi il luogo in cui fu tumulata la salma di Mazzei; possiamo solo supporre che, presumibilmente, le spoglie si possano trovare a Roma, dove nel frattempo si era trasferita la moglie, oppure in provincia di Lecce, dove viveva il padre.

Sono venuto a conoscenza di questi fatti grazie a Rino Giangrande, Presidente Onorario della Sezione ANPI di Avetrana «Pietro Mazzei» e membro del Direttivo Provinciale della stessa Associazione.

(Rino Giangrande)

Giangrande riferisce che la ricerca su Pietro Mazzei è iniziata nel 2012, dopo la presentazione del libro di Pati Luceri “Partigiani e antifascisti di terra d'Otranto (Lecce, Brindisi, Taranto)”, dove veniva già citato il nostro Partigiano fucilato. Da allora l’ANPI locale e provinciale, stanno cercando di far riconoscere e onorare il sacrificio di Pietro Mazzei sia a livello militare che istituzionale. Tuttavia, mentre il Ministero della Difesa ha già inserito il suo nome tra i caduti in guerra, come si evince dalla consultazione della Banca Dati dei Caduti e Dispersi della 2ª guerra Mondiale, inspiegabilmente le Amministrazioni comunali e alcune associazioni locali non stanno dando ancora nessuna risposta.

(Estratto dalla documentazione della Banca Dati dei Caduti e Dispersi 2ª guerra Mondiale
del Ministero della Difesa; documentazione a cui tutti possono accedere
tramite l’home page del sito “ONORCADUTI”)

Proprio grazie alla presenza di questo prezioso documento l’ANPI ha anche cercato di far inserire il nome del Partigiano fucilato in coda ai nomi dei militari morti durante la Seconda Guerra Mondiale ma ha trovato, da parte dell’ A.N.C.R. una strenua e incomprensibile resistenza, tanto che il nome aggiunto su un pezzo di carta in coda all’elenco dei caduti è stato prima oscurato e poi completamente tolto.

(Foto in possesso dell’ANPI di Avetrana)

Come ANPI, afferma Giangrande, abbiamo cercato di coinvolgere ben tre Amministrazioni Comunali, compresa quella attuale, ma nessuno ci ha mai spiegato il perché di questo ostracismo nei confronti di Pietro Mazzei.

La lotta che stiamo portando avanti da anni riguarda in primis il Partigiano fucilato ma anche gli altri 10 Partigiani e i 54 Deportati avetranesi, di cui tre morti nel naufragio del piroscafo «Oria»; eroi, militari, vittime, che hanno difeso anche con la loro vita i loro ideali ma purtroppo il loro sacrificio resta ancora sconosciuto alla maggior parte della popolazione locale. Per questo si sta cercando di costruire nel paese un percorso della memoria individuando le abitazioni dove sono nati o cresciuti i nostri resistenti per poter collocare una targa commemorativa che possa tenere sempre vivo il loro ricordo nelle generazioni future.

(Una delle targhe che è stata già esposta)

Nell’aprile del 2018 alla presenza di varie autorità civili, militari e religiose fu collocato nei pressi del monumento ai caduti un «Cippo» dell’ANPI dedicato ai partigiani e deportati, caduti e non di Avetrana, e in ricordo delle tante vittime della violenza nazifascista.
Tuttavia l’ANCR e alcuni ex Amministratori locali consideravano il Monumento come una proprietà privata, pertanto, proprio in seguito ai pareri discordi, mentre l’Amministrazione e la sezione Avetranese dell’ANPI stavano cercando una collocazione più idonea che potesse mettere d’accordo tutte le parti in causa, alcuni ignoti decisero di spostare il «Cippo», senza applicare le norme minime di sicurezza. Ovviamente il Presidente Giangrande ritiene quest’atto avventato e pericoloso, anche perché, ribadisce, il «Cippo» era stato già inaugurato, in un altro luogo idoneo e sicuro, alla presenza del Sindaco dell’epoca e di varie autorità.

(L’ex sindaco di Avetrana Antonio Minò e le autorità intervenute all’inaugurazione del «Cippo»)

Giangrande è anche in possesso di un busto realizzato, sotto la guida del Professore Beppe Guida , dagli studenti del Liceo Artistico di Manduria «Vincenzo Calò». L’opera è stata realizzata grazie all’unica foto di Mazzei in possesso dei suoi parenti. Il busto di Mazzei, in attesa di una collocazione più idonea, al momento è custodito nella sede dell’ANPI.

(Rino Giangrande vicino al busto di Pietro Mazzei)

Inizialmente il Presidente dell’ANPI avrebbe desiderato collocare il busto nell’ufficio Postale di Avetrana, visto il passato di postino del Mazzei, ciò non è stato possibile per motivi di sicurezza, quindi al momento si è ancora in attesa di trovare una sistemazione ideale che valorizzi adeguatamente l’opera. Contemporaneamente, visto il riconoscimento già avvenuto da parte del Ministero della Difesa, si è ancora in attesa di vedere finalmente il nome del Partigiano Pietro Mazzei inciso sulla lapide dei caduti della Seconda Guerra Mondiale avetranesi.

 In copertina, foto  restaurata da Luciano Troilo

 

 

di Imma Pontecorvo

C’era una volta una villa, Villa Poggio Siracusa, gemma incastonata nel golfo di Sorrento, proprietà prima dell’Ordine dei Gesuiti e poi del re di Napoli Ferdinando I, che ha fatto da sfondo a incontri fra aristocratici, sovrani e gesuiti, una dimora che è stata testimone di relazioni d’amore tra personalità illustri come Paolo Leopoldo e Tania Zoratrovich dei marchesi di Szeged e ancora Maria Sturdza e Costantino Cortchacow, imparentato con i Romanoff.

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