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Mentre Trump sognava il Nobel, a Oslo vinceva María Corina Machado.
Una scelta che ricorda al mondo che la pace non si impone: si custodisce, anche senza applausi

 

di  Monica Vendrame

La notizia è arrivata come una scossa, rimbalzando da una redazione all’altra: Donald Trump, il presidente delle frasi esplosive e delle guerre mai davvero chiuse, in corsa per il Nobel per la Pace.
L’annuncio del cessate il fuoco tra Israele e Hamas, firmato a Washington dopo più di due anni di guerra, è bastato per accendere per giorni la suggestione di un riconoscimento “storico”.
A Tel Aviv, come a Washington, i sostenitori del presidente già gridavano “Nobel! Nobel!”, come se bastasse una firma per cancellare le macerie e il rumore delle sirene.

Ma a Oslo la macchina del Nobel seguiva già un altro corso.
Il Comitato norvegese, fedele ai suoi tempi e alle sue regole, aveva già deciso: il Premio Nobel per la Pace 2025 sarebbe andato a María Corina Machado, leader dell’opposizione venezuelana, “per il suo coraggio nel difendere la democrazia e i diritti del suo popolo contro la dittatura di Nicolás Maduro”.
Una donna sola, perseguitata, costretta a nascondersi, ma capace di restare nel suo Paese quando tutti le consigliavano di fuggire.
Una scelta che oggi suona quasi rivoluzionaria: premiare chi non ha potere, ma ha ancora coscienza.

Mentre a Oslo si celebrava questa coerenza morale, da Washington arrivavano le reazioni amare.
Trump aveva scommesso tutto su quell’accordo siglato in extremis, convinto che bastasse un documento e una stretta di mano per riscrivere la propria immagine.
A sostenerlo, Benjamin Netanyahu e — più silenziosamente — Joe Biden, che negli ultimi mesi aveva garantito a Israele una fornitura quotidiana di armamenti “per la stabilità regionale”: quattromila bombe al giorno per spianare la via alla pace.

La retorica dei pacificatori armati ha ormai sostituito il linguaggio della diplomazia.
Trump, Netanyahu e Biden rappresentano tre sfumature della stessa logica: la convinzione che la pace si possa imporre, che basti la forza per far tacere il dolore.
È la pace dei cimiteri, quella che non richiede mediazione perché non lascia più nessuno con cui mediare.

Il Comitato per il Nobel, pur consapevole della sua impotenza simbolica, continua ogni anno a ricordare che la pace non è un’operazione di marketing.
Le bombe non portano stabilità, e la fine dei combattimenti non è sinonimo di riconciliazione.
Ma il mondo, assuefatto alla propaganda, sembra aver smarrito la differenza tra chi costruisce e chi distrugge, tra chi difende la libertà e chi la invoca come pretesto per annientare.

Forse il vero Nobel dovrebbe andare a chi sopravvive ai pacificatori:
alla madre che culla un figlio in una stanza senza luce,
al ragazzo che scava con le mani nude tra le rovine,
a chi trova ancora la forza di resistere senza armi né bandiere.
Sono loro i veri costruttori di pace, invisibili e senza voce.

Non è Donald Trump ad aver perso il Nobel.
È il mondo intero ad aver perso, da tempo, il significato della parola “pace”.
Lui la cercava per vanità, altri per convenienza, ma la pace vera non si conquista con la forza, né si firma nei palazzi.
Si costruisce nel silenzio, tra chi non ha potere, non ha premi e non riceve applausi.
E quella, purtroppo, non finisce mai sul palco di Oslo.

 

 

di  Massimo Reina

C’era una volta Gaza. Un giorno, forse non lontano, i libri di storia cominceranno così, come una favola nera. Una favola senza lieto fine, dove i bambini non si addormentano, ma muoiono. Dove i nonni non raccontano storie, ma vengono sepolti sotto le macerie. Dove le madri non cullano, ma stringono corpi senza vita.

Ogni giorno centinaia di morti. Donne, anziani, bambini. Non è una guerra: è una mattanza. Uno sterminio di massa. Un genocidio. Parola che certi benpensanti vorrebbero con copyright esclusivo, come se l’Olocausto fosse un marchio registrato e valesse solo per il “popolo eletto”. Eletto, sì. Ma da chi? Forse da Dio, o forse da sé stessi. Sicuramente non dai tribunali internazionali, che dovrebbero processare Israele come Stato canaglia.

Perché Israele oggi è questo: uno Stato canaglia. Peggio di quelli che finanziano il terrorismo. Perché il terrorismo lo pratica direttamente: autobombe, droni, missili. Non solo a Gaza, ma in mezzo mondo. Colpendo all’estero, in piazze affollate, nei campi profughi, nelle case. In barba al diritto internazionale, ai diritti umani, a qualsiasi parvenza di civiltà.

A Gaza e in Cisgiordania non ci sono solo bombe: ci sono deportazioni, torture, abusi sessuali, plotoni della morte. Gente giustiziata per strada come bestie. Famiglie intere spazzate via. E tutto questo accade nel silenzio complice dell’Occidente, che versa lacrime di coccodrillo a comando, e dei Paesi arabi, che preferiscono contare i dollari degli alleati sionisti piuttosto che i cadaveri dei loro fratelli.

E la Turchia? Potenza militare, orgogliosa di eserciti addestrati e moderni. Ma anche lì, vigliaccheria e calcoli. Meglio parlare che intervenire, meglio minacciare che rischiare. Il risultato è che Gaza brucia, e bruciando si spegne. Un popolo intero cancellato, metro dopo metro, bambino dopo bambino.

Un giorno, quando tutto sarà finito, qualcuno comincerà a raccontare: “C’era una volta Gaza”. E sembrerà la formula d’inizio di una fiaba. Solo che non sarà una fiaba, ma la cronaca di un massacro. Una favola reale, cupa, violenta, scritta con il sangue e incisa a proiettili sulle carni di una terra senza più speranza.