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di  Monica Vendrame 

Il 27 gennaio di ogni anno si celebra la giornata in ricordo della Shoah e del sacrificio di oltre un milione di persone, vittime innocenti di uno dei genocidi più grandi e terribili della storia.

Si può soltanto lontanamente  immaginare l’immane sofferenza  che ha dovuto subire il popolo ebraico.

Lily Rickman, sopravvissuto al campo di sterminio, racconta: “Esistevano tre modi per morire: c’era la morte naturale che ci dava il Padre Eterno;  quella di fare una rincorsa sui fili spinati e farla finita, tanto era inutile continuare a vivere; oppure quella di presentarti all’ambulatorio. Non esisteva una cura per un malato ebreo. Un solo foglio di via: le camere a gas”.

Tutti coloro che venivano deportati dentro il campo di concentramento erano per  la maggior parte ebrei. I  nazisti li percepivano come  una razza “pidocchio”, un cancro della società che doveva essere sterminato. Il loro destino, all’interno di Auschwitz, era la morte, tranne per quelli che erano abili al lavoro.  Quest’ultimi erano selezionati per fare dei lavori pesantissimi anche se, poi,  andavano comunque incontro al trapasso, sia per la fatica che per la malnutrizione. Come se non bastasse, ulteriori decessi erano provocati dalle numerose epidemie e pestilenze che scoppiavano spesso all’interno dell’area, provocate dallo sporco e dal fatto che i prigionieri potevano farsi la doccia solo una volta al mese.

Ancora oggi, all’interno del blocco 4, c’è una stanza che contiene ben 32 tonnellate di capelli umani che venivano tagliati dai nazisti alle persone che morivano dentro le camere a gas. E’ impressionante vedere anche  le montagne di scarpe  e di oggetti  accatastati, tutti effetti personali che sembrano raccontare tante storie di un’innocenza perduta, una tragica testimonianza dell’irreparabile (occhiali, valigie, stampelle, protesi, pentole ecc.).

Parlare della Shoah provoca sempre un senso di oppressione molto forte, una tristezza infinita da descrivere  E’ un viaggio intimo straziante ma necessario affinchè non si dimentichino mai le atrocità commesse, impossibili da accettare e da capire.

 

 

 
di Salvatore Fabiano
 
L’inizio della Fiera di Mare di Belvedere M.mo, in provincia di Cosenza, non è databile: sotto forme primordiali ci sarà sempre stata e man mano le tecniche e le esigenze, sempre più moderne, hanno fatto il resto. Si festeggia San Daniele Fasanella, Patrono della città morto decapitato a Ceuta, insieme ad altri frati francescani missionari.
 
"Le squadre sono pronte per affrontare le fatiche annuali. Trasporto a spalla del legname dai magazzini, ove è depositato dall’anno precedente, fino alla piazzetta della Marina. Manovali, falegnami e maestri d’antico mestiere iniziano le loro opere. Costruiscono le baracche che dovranno ospitare per giorni tutto quanto formerà oggetto di compra-vendita. Saranno dei negozi degni di questo nome. Pareti sicure, copertura a tenuta, scaffali, bancone e perfino angolo per il frugale pranzo. Ove necessario si ricava un posticino con una tendina per le prove degli indumenti. Capolavori costruttivi che i nostri artigiani hanno ereditato dal sapere e dalle capacità dei loro antenati.
 
Per noi ragazzi una serie infinita di curiosità e di ammirazione. Vedevamo nascere, sotto i nostri occhi, un borgo di puntali di legno fissati a terra e di tavole inchiodate l’una sull’altra. Ai tempi in cui ero studente di scuola media, ed erano gli anni cinquanta, la finestra della mia classe aveva l’affaccio sulla Piazza. Spesso gli insegnanti ci dovevano richiamare ad una maggiore attenzione in quanto ci distraevano i canti dei lavoranti, il loro comunicare ad alta voce e persino le loro bestemmie.
 
Era una scoperta speciale per quelli come me che, cresciuti nel centro antico, erano abituati a vedere le baracche già attive nei giorni della Fiera. Vederle nascere era molto affascinante. Il nove ottobre mattina era tutto pronto per iniziare a funzionare in coincidenza con la cosiddetta Fiera degli animali.
Alcune baracche erano costruite per poter ospitare improvvisati posti di ristoro. Avevano una parete poco in vista con larghe aperture  dovendo comunicare con la cucina sorta quasi all’aperto. Un bancone serviva per la somministrazione del vino ed alcuni tavoloni da muratore, ancorati al terreno su dei paletti, fungevano da tavoli collettivi per la consumazione del cibo.
Il piatto principe era costituito dallo spezzatino di interiora di pecora o capra. Si preparavano anche i primi di pasta con sugo di carne. Le seconde portate erano in genere baccalà e peperoni fritti.
Un'usanza gustosa che, nonostante il progresso e la ricchezza successiva, è rimasta a testimoniare una storia piacevole. L’igiene lasciava molto a desiderare: lavaggio sommario nell’acqua del mare, pulizia successiva in acqua dolce alla “fontana dei ciucci”.
 
Come già accennato, dal 9 al 12 ottobre si teneva la Fiera degli animali. I luoghi erano il tratto di spiaggia tra il Gafaro ed il piazzale del Consorzio Agrario.
Vitelli di ogni età, pecore e capre, ma anche maiali, sebbene per questi ultimi la tradizione li collocasse alla successiva festa di S. Antonio Abate.
Si  commerciavano anche asini, muli e cavalli.
Anche nel vecchio borgo la ristorazione tradizionale a base di spezzatino, peperoni e baccalà non mancava. In fondo il Santo era nato nel mio quartiere Vallata e bisognava certamente onorarlo allo stesso modo.
 
Voglio ricordare i personaggi simpatici e laboriosi che gestivano le botteghe, dette cantine, che operavano nel Centro Storico: Peppino  alle Scale, Carmela ntà Chiazza, cuore pulsante del borgo, e Lauretta all’Annunziata. Una cantina-bettola  merita di essere ricordata più delle altre per l’alternarsi continuo di gestioni: iniziò zi Peppa , poi la nominata Carmela, quindi Maddalena e Ciccillo, infine Rosaria e Peppe. Completava il quadro Rosaria  all’Acquaro.
Inventarono anche il prodotto culinario da asporto per chi non voleva “mischiarsi al volgo” per via della  posizione “altolocata”. Belvedere precursore di civiltà….anche in questo caso.
 
Una presenza tradizionale, protrattasi fino alla fine del secolo scorso, era rappresentata dalla comunità nomade le cui carovane giungevano già all’inizio del mese di ottobre. Si insediavano lungo il torrente Gafaro, sotto i ponti ed iniziavano le loro attività artigianali. Ferro lavorato per tripodi, zappe, vomeri ed utensili vari. Le lamiere zincate servivano per produrre coperchi, mestoli, setacci ed altri attrezzi da cucina. Avevano inizio così le loro scorrerie nel centro storico per marcare la loro presenza e vendere i loro ricercati prodotti. Gli aneddoti sulla loro vita, tanto diversa dalla nostra, si sprecavano, compresa la paura che incutevano per i presunti sequestri di bambini. Era un modo, per tanti genitori, per tenerci a freno e nei pressi delle nostre abitazioni. Il loro folklore, durante le feste serali, attirava la curiosità degli abitanti del posto. Canti, suoni, balli e i loro vestiti variopinti erano molto ammirati.
 
La prof.ssa Teresa Rogato, ha scritto  belle pagine sulle feste per i loro matrimoni. In particolare Teresa narra dell’arrivo trionfale, su carri ben addobbati, con il loro capo Benedetto alla guida della carovana. Provenivano dai paesi della Valle dell’Esaro e dalle pendici del Pollino. Infiocchettavano gli animali da traino ed esponevano le selvagge bellezze delle loro giovani, tutte vestite a festa con gli indumenti multicolori della loro tradizione.
A volte si celebravano a Belvedere i matrimoni dei loro giovani. Una ragazza di 15 anni con un giovane di 18 erano la norma. L’unione era combinata e si spegnevano - dice Teresa Rogato- le aspirazione della fanciulla che, magari dall’anno precedente, aveva sognato di andare in sposa al figlio del macellaio di Belvedere, avvistato, forse ad esso promessasi e sognato per tutto l’anno.
Il banchetto nuziale era tenuto all’Eldorado di don Gaetano Jaconangelo sul Lungomare, attuale Bar Scoglio. Brindisi, scambio degli anelli, pranzo, canti e balli.  Aggiungo che si celebrava un rito propiziatorio con il bastone del comando di Benedetto poggiato a terra e gli sposini che vi ballavano lateralmente e separatamente senza superarlo. Non so darne la spiegazione! Alla gente che giungeva per assistere si offrivano frittelle di farina di mais per buon augurio.
Alla fine un grande cappello posto al centro della sala per la raccolta del danaro  in dono agli sposi. Quando il tempo regalava la sua clemenza, tutto proseguiva sul piazzale fino al ponte del Gafaro, ove era posto il carro riservato ai novelli sposi. Un grande falò veniva acceso ed attorno la festa si completava. Finiva di certo l’illusione di due giovani, costretti a quell’unione, ma iniziava comunque una nuova famiglia.
 
Sul marciapiedi attorno al Palazzo Zito, ora centro d’arte il Faro, si piazzavano di buon mattino le donne che arrivavano dalla vicina Diamante con le loro specialità: alici e sarde salate poste in tinozze di legno, panetti di farina di castagna, castagne infornate o bollite, lupini. Vere prelibatezze per grandi e piccini. Ricordo qualche commerciante uscire dal negozio di generi alimentari con le fette di pane aperte, farsele farcire di alici o sardine ed avviarsi poi alla baracca che vendeva vino. Le venditrici diamantesi sostavano fino a sera, fino cioè alla partenza dell’ultimo sbuffante autobus. Le rivedo con una coperta o un’incerata logora sulle gambe per proteggersi dalle intemperie.
 
Immancabile il venditore di biglietti della fortuna. Un anziano signore armato di fisarmonica e di una gabbietta con dentro un pappagallo di nome Lorito. La gabbietta presentava al suo margine basso uno sportellino con dei biglietti stampati. Erano colorati a seconda dell’età, dello stato civile e del sesso dell’acquirente. La bestiolina ammaestrata metteva il becco nel contenitore e prelevava il bigliettino adatto. Qualche frase a mò di oroscopo e tre numeri da giocare al lotto. Dopo ogni sosta, il venditore di sogni, riprendeva il cammino tra le baracche con un invariabile suono della fisarmonica.  “Comprate la fortuna o brava gente,/ compratela versando quattro soldi!”/ e l’uccellino, certo, ammaestrato/ sembrava avere il becco fortunato”. ( Da una poesia del mio prof. Giuseppe Rogati).
In seguito venne anche la roulette sotto i ponti, ma eravamo già nella modernità.
 
“Il venti ottobre la statua del Santo protettore ritorna al Convento ,e si smonta tutto il villaggio di legno. Mestamente arrivederci al prossimo anno.
Scene di un mondo sparito che resta solo nei meandri della mente di quelli della mia età: bambini di allora!”
 
foto Egidio Rogati
 
 

 

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