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di  Benedetto Maria Ladisa 

Riccardo Bianchi, l'assassino dei fratelli Gianluca e Ilaria, nonostante una condanna definitiva all'ergastolo, dopo soli dieci anni di galera gode già di permessi per uscire dal carcere, andare al lavoro liberamente e dormire fuori ogni fine settimana. 

Una decisione che ha scatenato la rabbia incontenibile di Giovanni Palummieri, padre dei due ragazzi uccisi (nella foto Gianluca e Ilaria) a Milano meno di 14 anni fa.

Per uccidere Ilaria, l’assassino Riccardo Bianchi, all’epoca 23enne, l’attirò in trappola: si finse vigliaccamente amico del fratello Gianluca, 20 anni. Passò una sera con lui, e alla fine lo ammazzò con trenta coltellate, gettandolo poi in un cassonetto. Gli prese le chiavi di casa, entrò nell’abitazione e svegliò Ilaria, 21 anni. La torturò per 14 ore, poi la uccise!

Fu condannato all’ergastolo e, secondo il PM Cecilia Vassena nella sua requisitoria, «non ha mai mostrato alcun segno di pentimento».
Nonostante la crudeltà dimostrata e l'assenza totale di rimorso, il tribunale di sorveglianza, trascorsi i primi dieci anni di galera, gli ha concesso di lavorare all’esterno del carcere e trascorrere i fine settimana con la sua famiglia.

Ovviamente questa decisione ha scatenato l’ira del padre delle due vittime:

«Adesso lui respira la mia stessa aria. Potrei incontrarlo per strada.
Lui, che ha ammazzato i miei figli, che ha buttato Gianluca in un cassonetto della spazzatura, che ha torturato e violentato Ilaria per quattordici ore prima di uccidere anche lei.
Adesso è libero. A trentacinque anni, con una vita davanti. La vita che i miei figli non avranno. E che non ho più neanche io.

Da un anno lui esce dal carcere di Bollate tutte le mattine. Il sabato sera dorme a casa del suo papino.

Ed io non ho diritto nemmeno di sapere se il giudice che lo ha fatto uscire ha dei figli. Vorrei chiedergli: se al posto dei miei ci fossero stati i suoi, sarebbe cambiato qualcosa?

L’ergastolo, confermato in Appello e in Cassazione, era solo sulla carta?

Il giorno della sentenza gli dissi che gli conveniva prendere l’ergastolo, perché altrimenti mi avrebbe trovato ad aspettarlo, per chiudere la faccenda a modo mio.

Adesso è venuto il momento di mantenere la promessa».

Uno sfogo duro, pieno di ira e di dolore — e per questo comprensibile.
Quando però si arriva anche solo a pensare di farsi giustizia da soli, significa che nelle nostre leggi, nella nostra Giustizia italiana, c’è molto da rivedere.

Questi due ragazzi, nella foto, meritavano più giustizia.
Il mio pensiero va a loro — che non meritavano di essere uccisi anche dalla legge — e al loro papà Giovanni, distrutto dal dolore e dal senso di ingiustizia.

Coraggio, Giovanni.

 

 

Nel silenzio che segue un crimine atroce, la voce delle vittime spesso si perde. Ma ci sono parole che, pur non scritte da chi non ha potuto viverle, riescono a parlarci con la forza della verità e della giustizia. Questa è la lettera immaginaria — ma più reale che mai — del piccolo Alessandro Mathas, un bimbo di appena otto mesi ucciso a Genova nel 2010. La sua voce, prestata dalla penna di Benedetto Maria Ladisa, si rivolge all’uomo che lo ha strappato alla vita, rispondendo alla recente richiesta dell’assassino di ottenere un permesso premio dopo soli dieci anni di carcere.
Un messaggio che interpella le coscienze, un monito che grida il diritto alla memoria e alla giustizia per tutte le vittime innocenti.

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SE POTESSI SCRIVERTI

di  Benedetto Maria Ladisa

Sono Alessandro Mathas.

Vedi, Antonio,
vorrei tanto scriverti o parlarti,
per dirti ciò che penso sulla tua richiesta di uscire dal carcere in anticipo.
Vorrei, ma non posso.

Quando mi hai ucciso, mi hai impedito di crescere,
di imparare a leggere o a scrivere.
Perfino di imparare a camminare.
Avevo solo otto mesi.

Sei stato condannato a 26 anni per avermi ucciso solo perché piangevo troppo.
Era la casa dove avrei voluto crescere, nella zona di Nervi, a Genova.
Tu e mamma, quella notte, avevate consumato tanta cocaina.
Ma io non sapevo nulla di droghe.

Piangevo perché nessuno di voi due pensava a me.

Appena mamma Caterina è uscita per comprare altra droga,
io piangevo ancora più forte,
ma era un pianto normale, come quello che fanno tutti i bimbi di otto mesi.

Mamma era una tua compagna,
e tu non eri mio padre.
So solo che ti chiami Antonio.

Non dovevi uccidermi.
Perché lo hai fatto, non lo so ancora.

Mi hai spinto così forte da uccidermi, quando mamma non c’era.

Potrei chiamarti vigliacco,
perché ero piccolo e indifeso,
ma non conoscevo questa parola.

Potrei chiamarti crudele,
ma non conoscevo questa parola.

Non sapevo neppure cos’è la morte.

Mi hai tolto la possibilità di diventare
un bambino felice,
un ragazzo,
uno studente,
e forse un marito e padre.

Avevo otto mesi, ti rendi conto?

Non saprò mai cos’è un libro,
un lavoro
o il bacio di una donna.

Avrei solo voluto vivere.
Ne avevo il diritto,
alla vita.
E tu me lo hai tolto.

Mamma Caterina è stata condannata a 4 anni
per avermi lasciato solo con te.
Ma tu, Antonio,
sei stato condannato a 26 anni.
Ne hai scontati appena 10.

Vuoi già uscire per buona condotta?

E la mia giustizia dov’è?

Come posso perdonarti?
Come posso essere sicuro che non farai più male a nessun bambino?

Già,
perché ciò che hai fatto per me è stata la fine di tutto.

Vorrei spiegartelo meglio,
ma non mi hai dato il tempo
neppure di imparare a camminare,
giocare,
scrivere
e leggere.

E siccome non so scrivere,
questa lettera la sta scrivendo per me
uno che non conosco,
ma che ci tiene alla giustizia per le vittime.

Si chiama Benedetto Ladisa.
Sta scrivendo ciò che avrei voluto scriverti io.
Ma io non posso.
Non posso più.
Per colpa tua.

Se davvero uscirai dal carcere con tanto anticipo,
ti dico che non è giusto.

Per me
e per tutti i bambini
vittime di tanta crudeltà.

Ma se così sarà…
portami almeno un fiore.

 

Alessandro Mathas al suo assassino, Antonio Rasero, di Genova,
che ha chiesto di poter uscire dal carcere per 8 ore al giorno per buona condotta.
Ha scontato 10 anni su 26.

 

 

Addio stiva, benvenuta cabina

 

di  Monica Vendrame

A partire dal 12 maggio, l’Enac rivoluziona le regole del volo: tutti gli animali domestici – anche quelli di taglia media o grande – potranno viaggiare accanto ai loro umani, trasformando per sempre l’esperienza dei viaggi aerei con gli amici pelosi. Niente più separazioni dolorose o stive pressurizzate: ora si vola insieme, nello stesso scomparto... e magari con vista nuvole.

 

Città del Vaticano, 8 maggio 2025

 

di Monica Vendrame 

Un pomeriggio tiepido di primavera, la piazza di San Pietro gremita di fedeli col fiato sospeso, e poi quel segno che tutto il mondo cattolico attendeva: la fumata bianca. Dopo quattro scrutini, i cardinali riuniti in Conclave hanno eletto il nuovo Vescovo di Roma. Si chiama Robert Francis Prevost, è statunitense, e ha scelto il nome di Leone XIV. Per la prima volta in oltre duemila anni, la guida della Chiesa arriva dagli Stati Uniti d’America.

Nato a Chicago nel 1955, religioso agostiniano, Leone XIV ha costruito la sua vocazione lontano dai riflettori. Dopo le lauree in matematica e filosofia, ha scelto la strada del sacerdozio, con una formazione solida a Roma e un lungo servizio missionario in Perù, dove ha vissuto a contatto con le comunità più semplici. Non un uomo di curia, ma un pastore che ha imparato il linguaggio del popolo.

La sua ascesa, tuttavia, non è passata inosservata. Francesco lo volle in Vaticano come prefetto per i Vescovi, un ruolo chiave nei delicati equilibri della Chiesa. Il cardinalato arrivò nel 2023, confermando la fiducia nei suoi confronti.

L’elezione di Leone XIV segna una svolta, non solo per la provenienza geografica. È un messaggio forte per una Chiesa che guarda sempre più al Sud del mondo, al dialogo interculturale, alla sfida di una fede che cammina tra le periferie del pianeta e quelle dell’anima.

Il nuovo Papa si è affacciato alla Loggia centrale di San Pietro poco dopo le 18. Indossava una semplice talare bianca, il volto emozionato ma fermo. Il suo primo saluto è stato sobrio, accompagnato da una richiesta di preghiera per il predecessore e per il popolo di Dio: «Iniziamo questo cammino insieme, come fratelli».

 

 

La scelta del nome, Leone, richiama pontificati di grande forza e riforma. Il più celebre fu Leone Magno, nel V secolo, artefice del consolidamento del primato romano. Più vicino a noi, Leone XIII fu il Papa del dialogo con la modernità, autore dell’enciclica Rerum Novarum. È un nome che non lascia indifferenti: dice coraggio, visione, autorità spirituale. E il numero XIV segna la continuità in un’epoca di transizione.

Nel volto di Leone XIV si è colta un'espressione che trascende l’evento storico. Si intravede la possibilità concreta che la Chiesa possa tornare ad ascoltare i cuori prima delle ideologie. Un Papa giunto da lontano, ma non estraneo; con le mani segnate dal lavoro missionario più che dai velluti vaticani.

Forse è proprio questa la figura di cui si avvertiva il bisogno: una guida capace di stare in mezzo alla gente, di comunicare più con i gesti che con i documenti, e di ricordare che il Vangelo, prima ancora di essere dottrina, è presenza viva, incarnata, vicina.

 

 

 

Tre giorni a San Pietro, un’eredità che va oltre la fede

 

di  Monica Vendrame

Per la prima volta, il mondo si raccoglie davanti al silenzio del corpo di Papa Francesco, esposto alla luce come un ultimo gesto d’amore. Da domani, per tre giorni, le sue spoglie veglieranno nella maestà di San Pietro, dove migliaia si accosteranno in preghiera, o anche solo in rispetto.

 

Il mondo cambia, ma noi guardiamo dall’altra parte

 

di  Paolo Di Mizio

Negli anni ’60 i giapponesi venivano in massa in Europa, fotografavano tutto e poi, a casa, imitavano le nostre auto e le ottiche di precisione. Noi ridevamo, ridevamo. Ma dopo pochi anni, sviluppando le loro tecnologie, divennero la seconda potenza economica mondiale.

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