Dopo vent’anni di lotta contro la sclerosi multipla, Martina Oppelli chiede il diritto di morire con dignità. Tre dinieghi dal sistema sanitario e un’ultima estate da affrontare: lo Stato continua a non voler ascoltare la sua voce
di Monica Vendrame
Da vent’anni Martina Oppelli convive con la sclerosi multipla. Oggi, a 49 anni, è tetraplegica e dipende totalmente da assistenza continua, farmaci salvavita e presidi medici come la macchina della tosse. Vive a Trieste, dove da mesi, ormai da anni, combatte un’altra battaglia: quella per il diritto a porre fine alla propria esistenza in modo consapevole, legale e assistito.
Martina chiede un gesto semplice, eppure in Italia ancora impossibile: poter morire quando lei lo ritiene giusto, nel pieno della sua lucidità, della sua coscienza, della sua autodeterminazione. Lo ha fatto seguendo la strada della legge, con trasparenza e determinazione. Ma per tre volte, l’Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina ha risposto no. L’ultimo rifiuto è datato 4 giugno. La motivazione è sempre la stessa: secondo la commissione medica, Martina non rientra nei parametri previsti dalla sentenza della Corte Costituzionale del 2019, perché non sarebbe sottoposta a un trattamento di sostegno vitale.
Una nuova valutazione è stata promessa, ma intanto il tempo passa, e l’estate si avvicina. Un’estate, l’ennesima, che Martina non vorrebbe dover sopportare. “Non avevo considerato l’idea di essere costretta a subire un’altra stagione così. Eppure ho tutti i requisiti previsti dalla legge. Ho sempre amato la vita, fino in fondo, fino all’ultima goccia. Ma oggi mi resta solo una grande stanchezza”.
Non c’è niente di teatrale in quello che scrive Martina. Nessuna parola sopra le righe, nessun lamento. Solo la stanchezza di chi ha amato profondamente la vita e ora, con altrettanta lucidità, chiede che le venga permesso di lasciarla andare. Non è un grido: è quasi un sussurro, ma di quelli che non ti lasciano più. Ha provato tutto, ha resistito più di quanto fosse ragionevole aspettarsi da un essere umano. Ora non chiede altro che questo: poter scegliere quando fermarsi. “Chissà, magari qualcun altro potrà farne uso, potrà gioirne… io no”, scrive. “Io, forse, dovrò davvero partire. Un viaggio che non vorrei fare, l’ultimo. Verso un posto che non è casa, ma che almeno ha saputo riconoscere che anche la fine, se vissuta con coscienza, può essere un atto d’amore”.
Nel frattempo, l’Associazione Coscioni ha lanciato una nuova campagna: raccogliere 50mila firme entro il 15 luglio per una proposta di legge di iniziativa popolare sul fine vita, da discutere in Senato il 17 dello stesso mese. L’obiettivo è chiaro: riconoscere legalmente ogni scelta, inclusa l’eutanasia, nel pieno rispetto della persona e con il coinvolgimento del Servizio Sanitario Nazionale. Perché il tempo della compassione non può più essere rimandato.
È strano come la morte, quando è scelta in libertà, faccia così paura. Più della sofferenza, più del decadimento, più dell’abbandono. Martina non sta chiedendo un favore. Sta chiedendo che venga rispettata la sua umanità, anche nella sua forma estrema. Non è la resa di una persona debole: è l’ultimo atto consapevole di chi ha combattuto a lungo. E con amore. Se uno Stato non è in grado di ascoltare questo grido composto, allora ha smesso di essere uno Stato di diritto. E ha smesso di essere umano. La domanda che ci resta è semplice, e scomoda: chi stiamo davvero proteggendo, quando neghiamo a qualcuno il diritto di morire con dignità?
* foto dal profilo facebook di Martina Oppelli