di Massimo Reina
In guerra si muore. Lo sanno anche i bambini, quelli che la guerra li fa diventare grandi troppo in fretta — se restano vivi. Si muore sotto le bombe, per fame, per malattia, per freddo, per abbandono. Ma ciò che muore per primo, molto prima dei corpi, è altro. La dignità. L’umanità. Due parole che sembrano smarrite nei comunicati ufficiali, nei proclami da social, nelle conferenze stampa di generali inamidati e politici laccati. Due parole che non fanno rumore, non creano titoli, non si possono contare con le statistiche dei morti e feriti. Ma sono lì, sotto le macerie di ogni conflitto, a marcire senza funerale.
La dignità muore quando una madre deve decidere quale figlio portare in salvo per primo. Quando un uomo istruito si riduce a mendicare un pezzo di pane per sua moglie. Quando un ragazzino, con la faccia da adolescente e gli occhi già vecchi, stringe un fucile più lungo di lui perché gli hanno detto che è l’unico modo per avere rispetto. Muore quando si mente. Quando si cancella una verità, si rovescia una storia, si chiama “autodifesa” un’occupazione, si definisce “terrorista” chi ha visto la propria casa sbriciolata da un missile.
E poi c’è l’umanità. Che non si misura con i trattati ma con gli sguardi, i silenzi, le carezze, i gesti piccoli. È l’umanità che si perde quando si smette di provare pietà per chi soffre — solo perché porta una bandiera diversa, una lingua diversa, una religione scomoda. È l’umanità che si spegne negli occhi di chi bombarda sapendo di colpire civili, e lo fa lo stesso. O di chi applaude l’artiglieria da uno studio televisivo, col petto gonfio di retorica e il culo ben protetto da una poltrona.
La guerra non risparmia nessuno. Neanche chi la vince. Perché anche i vincitori, di solito, tornano a casa diversi. Non migliori. Più vuoti. Con un pezzo d’anima che resta là, in una trincea, in un villaggio raso al suolo, in una bara senza nome. Eppure la guerra, come la storia, si ripete. Sempre. Cambiano le divise, i nomi, le scuse. Ma il copione è sempre lo stesso: si dichiara che “non c’erano alternative”, che “la colpa è del nemico”, che “dobbiamo difendere i nostri valori”. Valori. Appunto. Ma quali?
Il paradosso è che, nella guerra, anche chi non combatte, perde qualcosa. Noi spettatori, noi che assistiamo da lontano con la scusa che “non possiamo fare nulla”, perdiamo ogni giorno un po’ di vergogna. Ci abituiamo. A tutto. Ai cadaveri sui social. Ai bambini insanguinati. Alle fosse comuni. Alle madri che urlano. Alle menzogne. Ci abituiamo al disumano, come se fosse normale. E quando il disumano diventa normale, allora non siamo più neanche spettatori: siamo complici.
Perché la vera differenza non la fa chi impugna un fucile, ma chi resta in silenzio mentre lo si carica.
Ecco perché, oggi, più delle armi, più dei morti, più dei confini contesi, ciò che andrebbe difeso con i denti è proprio quello che stiamo lasciando morire: la dignità di chi resiste e l’umanità di chi osserva. Ma ormai sembra roba da sognatori, da illusi, da anime belle. Quelli che parlano di pace e vengono presi in giro. Quelli che non si schierano col più forte. Quelli che non urlano, ma piangono. E per questo, forse, sono ancora umani. Forse.
La guerra è una fabbrica di mostri: chi la scatena, chi la combatte, chi la subisce e anche chi la guarda e pensa che, in fondo, un po’ se la siano cercata.