di Ilaria Solazzo
Seduto nel suo studio romano, sommerso da pile di taccuini e romanzi sottolineati, Paolo – scrittore di tre libri intensi, nati più per necessità che per ambizione – ci accoglie con un sorriso ironico. Uno di quelli che appartengono solo a chi ha imparato a vivere più nei margini che sotto i riflettori. Il primo libro, "L'estate della farfalla", è diventato un piccolo cult tra i lettori più attenti, mentre il secondo "Kinsugi - Donne riparate" e il terzo "AMANTICIZIA" si sono guadagnati un seguito silenzioso, ma fedele.
Parlare con lui di scrittura è come entrare in una bottega artigiana: niente fronzoli, ma molta sostanza.
- Cominciamo con una domanda semplice, ma forse la più importante: perché scrivere?
“Scrivere, per me, è sopravvivere. È un modo per non affogare nei pensieri. All’inizio lo fai per te, per cercare di dare forma a quello che senti. Ma poi capisci che scrivere è anche un atto d’amore verso gli altri. Le parole che nascono da un’urgenza autentica arrivano più lontano. Ti accorgi che qualcuno, leggendo, si è sentito meno solo. Ed è lì che la scrittura smette di essere un rifugio e diventa un ponte”.
- Nei suoi libri si percepisce fortemente questa tensione tra il personale e l’universale. Ma oggi scrivono tutti, in qualche forma. Cosa distingue, secondo lei, chi scrive qualcosa di qualità da chi semplicemente scrive?
“Scrivere è semplice. Scrivere bene è difficilissimo. Oggi la velocità ha preso il sopravvento sulla profondità. Molti confondono la necessità di esprimersi con la capacità di comunicare qualcosa che resti. Tutti possono pubblicare, ma pochi sanno davvero raccontare l’umano. E non c’entra lo stile o la grammatica: c’entra l’onestà, l’ascolto, la capacità di mettere a nudo se stessi senza cercare approvazione”.
- Una riflessione che vale ancora di più nel mondo attuale, in cui l’editoria sembra divisa tra grandi nomi e autopubblicazioni. Lei ha parlato, spesso sui social, di un percorso editoriale complesso. Ce lo racconta?
“È stato, senza giri di parole, un percorso frustrante. Ho ricevuto decine di rifiuti. Alcuni cortesi, altri preconfezionati. Ho incontrato editori interessati solo a farmi pagare per pubblicare. Alla fine ho trovato una piccola casa editrice indipendente, che ha creduto nel testo. È lì che ho capito che il vero editore non è solo un distributore, ma un alleato creativo. Oggi, purtroppo, molti aspiranti scrittori cadono nella trappola del "paghi e ti stampiamo", e finiscono per pubblicare cose acerbe, senza alcun supporto editoriale vero”.
- Cosa consiglia a chi sogna di vedere il proprio manoscritto pubblicato?
“Di partire da sé stessi. Di non scrivere per piacere solo agli altri, ma per dire qualcosa che sia vero. E poi di rileggere cento volte, far leggere ad altri, accettare critiche, riscrivere...se strettamente necessario. Un manoscritto è vivo solo quando sei disposto a tagliarlo. E poi studiare: capire come funziona l’editoria, distinguere le realtà serie da quelle a pagamento. E infine, forse la cosa più difficile: essere disposti ad aspettare. La scrittura è lenta. Se cerchi applausi immediati, è meglio aprire un canale TikTok”.
- Cosa pensa del fatto che oggi molti autori pubblicano un libro all’anno senza mai davvero evolversi?
“È un po’ come cucinare sempre lo stesso piatto cambiando solo le spezie. Funziona per vendere, forse. Ma come lettore, me ne accorgo. E come autore, non potrei mai farlo. Ogni libro dovrebbe essere un passo in avanti o un salto nel buio. Se invece diventa un prodotto, rischia di perdere anima. E l’anima, nei libri, si sente”.
- Il secondo libro, è forse quello che ha toccato più persone. Cosa lo rende, secondo lei, così speciale?
“Non era pensato come un romanzo e di fatto non lo è...trattasi di 8 racconti di 8 donne tutte diverse tra loro. In un periodo della mia vita mi sono ritrovato, mio malgrado, a dover dare supporto ad un amica che attraversa un momento delicato. Scrissi, in forma riservata, un racconto per lei. Ne rimase entusiasta. Mi invogliò a scriverne altri. Da qui il libro ha preso forma e colore. Ogni pagina è nata dal dolore, ma anche dalla volontà di trasformarlo in qualcosa di condivisibile. Mi hanno scritto in tanti sui social. Quando una cosa così intima riesce a diventare universale, allora forse si ipotizza di aver scritto qualcosa di buono”.
- Scrivere è...?
“Che scrivere non è un talento, è un esercizio. Che non c’è vergogna nel fallire una pagina, ma ce n’è nel pubblicarla senza lavorarci. E soprattutto, vorrei far capire ai giovanissimi che la scrittura è un mestiere sporco: richiede tempo, sacrificio, autocritica feroce. Chi ama avere le mani pulite, forse, non ha nulla da dire”.
- Una frase che resta. Come vuole chiudere questa conversazione?
“Scrivere non cambia il mondo. Ma può cambiare una persona. E quella persona, forse, un giorno cambierà qualcosa. È poco, forse. Ma è abbastanza per continuare”.
- Progetti futuri?
“Sto scrivendo un nuovo libro, ma stavolta voglio farlo ancora più lentamente. Il rumore intorno è troppo. La verità ha bisogno di silenzio per farsi sentire”.
"Scrivere è un atto di solitudine che chiede coraggio e rifiuta le scorciatoie", P.P.M.
Uscendo dallo studio di Paolo Proietti Mancini, con il taccuino ancora aperto e la voce del registratore che lentamente si spegne, porto con me una sensazione rara: quella di aver parlato con qua
lcuno che scrive non per essere letto, ma per comprendere. In un tempo in cui la scrittura è spesso usata come vetrina, come scorciatoia o monologo narcisistico, incontrare un autore che rivendica il valore dell’autenticità, dell’artigianato lento, della riscrittura dolorosa, è quasi disorientante. Ma anche necessario.
La scrittura, ci ha ricordato P.P.M., non è solo stile o ispirazione, ma una forma di onestà. È il coraggio di guardarsi dentro senza sconti e di offrire agli altri non ciò che è già stato lucidato per piacere, ma ciò che ancora brucia. Non basta avere qualcosa da dire. Bisogna averlo vissuto. Averci fatto i conti. Solo allora, forse, la parola può diventare ponte.
In un'epoca che produce parole in eccesso e significati in difetto, la voce di uno scrittore che sceglie il silenzio come punto di partenza è un atto di resistenza. E forse, anche una promessa. Una promessa che vale la pena ascoltare.