di Massimo Reina
Improvvisamente, dopo decenni di amnesia selettiva, Guantanamo esiste. La scoperta dell’acqua calda ha investito redazioni, opinionisti, editorialisti d’esportazione e parrucconi in servizio permanente su La7 e RaiTre. Guantanamo, dicono ora con aria indignata, è una vergogna democratica. Davvero? Ma pensa.
Peccato che ci sia da chiedersi dove fossero questi paladini dei diritti umani quando Barack Obama, Nobel per la Pace a scatola chiusa, prometteva di chiuderla in campagna elettorale e poi, una volta entrato alla Casa Bianca, ci metteva il tappeto rosso davanti. O quando George W. Bush la riempiva come un discount di periferia in periodo di saldi, con detenuti senza processo, senza difesa e senza speranza. O ancora quando Biden, l’attuale geriatra della democrazia, se la dimenticava del tutto — troppo impegnato a finanziare guerre per procura e a sbagliare porta all’uscita dai comizi.
Ma oggi, e solo oggi, Guantanamo è tornata d’attualità. Perché? Perché ci sarebbe Trump di mezzo. E allora, come sempre accade in questi teatrini transatlantici, ciò che era tollerabile sotto i “buoni” diventa intollerabile sotto i “cattivi”. La doppia morale dell’Occidente funziona così: si indigna solo se il protagonista non piace al circolo radical chic. Basta cambiare l’attore, e la stessa scena diventa un crimine contro l’umanità.
Guantanamo per gli irregolari è una fake news
Così, tra un sopracciglio alzato di Mentana e un tweet d’indignazione di qualche influencer coi braccialetti tibetani, ci raccontano la favola dei "poveri migranti deportati" a Guantanamo, strappati alla libertà come nei lager. Peccato che molti di questi presunti agnellini siano in realtà lupi, con precedenti per violenze, stupri, pestaggi, incendi, omicidi, e militanze in gang armate più simili a eserciti privati che a comunità oppresse.
Hanno bruciato negozi, devastato quartieri, assalito poliziotti e cittadini, e ora ci si strappa le vesti perché — udite udite — potrebbero essere reclusi in un centro militare fuori dal territorio USA. "Non è una novità che trasferiamo gli immigrati illegali che hanno compiuto dei crimini a Guantanamo prima che vengano rimandati nel loro Paese d'origine", ha spiegato la portavoce Tammi Bruce.
Al massimo ci rimangono gli irregolari violenti che provengono da Stati che non accettano rimpatri. Per gli altri, compresi i due italiani, è solo un punto di passaggio.
Sui lager fuori Gaza tutti muti
Chiariamoci: Guantanamo è e resta una vergogna giuridica e morale, e lo è da vent'anni, non da ieri. Ma non si può accendere la torcia dell’indignazione solo quando conviene politicamente. Il problema, per questa stampa coloniale e ipocrita, non è Guantanamo, ma chi la utilizza oggi. E se a farlo è l’odiato Trump, allora scatta la campagna, i titoli a 9 colonne, il rosario delle lacrime democratiche.
Del resto, gli stessi che oggi piangono per Guantanamo sono quelli che restano muti sul bombardamento di Gaza, sui campi di concentramento israeliani in pieno deserto dove vengono detenuti sotto il sole migliaia di palestinesi, o sui lager in Libia finanziati con soldi europei. Non sia mai che si dica qualcosa che possa dispiacere a Washington o Bruxelles.
Questa non è indignazione. È marketing politico travestito da coscienza. È il solito doppiopesismo morale che distingue tra profughi buoni e cattivi, tra bombe intelligenti e barbare, tra torture “accettabili” e torture “trumpiste”. E soprattutto tra prigionieri “visibili” e “invisibili”, quelli di cui ci si accorge solo quando serve.
La verità è che Guantanamo andava chiusa ieri, e puniti tutti coloro che l’hanno voluta, usata, e difesa. Da Bush a Obama, da Biden ai generali con la stella facile. Ma finché l’indignazione sarà a gettone, e basterà cambiare presidente per cambiare giudizio, allora siamo noi — europei, italiani, “democratici” — i veri prigionieri. Della nostra ipocrisia.