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Un’opera poetica carica di lirismo e ricca di simbologie ispirate dall’esperienza umana

 

di Giuseppe Cinquegrana 

VIBO VALENTIA - Frammenti d’Anima è l’ultimo lavoro letterario del giornalista, scrittore e sociologo Michele Petullà, il quale si cimenta, dopo la narrativa e la saggistica, anche con la poesia, anche quì con ottimi risultati a giudicare dal successo che il libro (giunto già alla ristampa in poche settimane) sta riscuotendo presso il pubblico dei lettori e dal gradimento della critica.
Il volume è un’elegante raccolta di intense poesie – curata ed edita da Meligrana e inserita al numero 37 della Collana π –, i cui versi, ricchi di una piacevole musicalità, profumano di sentimenti, ispirati dall’esperienza umana, in cui convergono significati profondi della nostra esistenza, di cosa ci è appartenuto e di quanto ci appartiene. Come in “Canto d’amore”, in cui le rughe, come sigilli sacri, rievocano il nostro tempo di ieri e di oggi e i sensi vengono avvolti dalla nebbia misterica, interprete di un panteistico sentire.
Un’opera in cui la narrazione poetica mette a confronto felicità e sofferenza, libertà e sentimento, memoria e passione, che nell’insieme esaltano il valore della vita. Una poesia, quella di Frammenti d’Anima, che si sofferma tra albe e tramonti, tra amori cresciuti e divenuti passione, tra emozioni e sentimenti leggiadri, sulle ali del vento, che accarezza i sogni di un profondo sentire, in cui proprio l’amore viene narrato come la favola di un’eterna primavera: Con gli occhi / dell’amore / parlami /e che mi ami /saprò…
In Frammenti d’Anima si legge una coralità di significati, che esprimono le rivelazioni dell’animo umano dell’autore, un intellettuale raffinato, uomo di fede, che guarda alla bellezza, alla gioia della vita, con valori cristiani e come antidoto agli affanni della nostra quotidiana esistenza e, allo steso tempo, eleva a sinfonia poetica quel sentire holderliniano di colui che si aduna alla vita e nel sogno umano vi si adagia. Poesia come spirito, pertanto, letteratura trasognante alterità, anche se non manca una certa vena di velata malinconia, come in “Terra mia”.
Alcune poesie presenti nell’opera sono state premiate nei grandi appuntamenti culturali, dove i versi di Michele Petullà, calibrati sulla pura essenza delle vicende umane, si sono particolarmente distinte per sensibilità poetica, per contenuto e musicalità, per un poetare ricco di simbologie e di sinestesie. 

 

L'autore, Michele Petullà 

Nel leggere i Frammenti di Petullà, ci si accorge che si tratta di intensa poesia dell’ascolto del cuore, personificazione dell’amore alato in cui il verso è pregno di estetico lirismo. Momenti inquieti che non lasciano indenni l’animo dell’autore, il quale esorcizza il male, la morte, il terremoto, con l’invito al “silenzio”. Concetto, quello del silenzio , che l’autore riprende spesso nelle sue liriche, quasi a voler rimarcare la necessità di esorcizzare gli assordanti rumori dei nostri tempi, i quali esaltano il caos e allontanano dai veri valori dell’esistenza umana.
Così come diverse volte vengono ripresi i termini “cuore”, “anima” e ”amore”: termini e concetti forti di tutta la poetica di Petullà, usati in maniera significativa e allegorica all’interno del tempio di Frammenti d’Anima, sostenuti e rinforzati dalle colonne dorate fatte di “tempo”, “sogni”, “libertà”. Tutti concetti che rendono alla poetica elegiaca esaltazione della memoria, che diviene desiderio di ritrovare quello che è stato, di comprendere gli spazi attuali, spesso vuoti, che hanno perso la bellezza delle armonie della natura umana, della chiara ed esaltante voglia di amare.
E allora diventano manifesto dell’intera opera i versi della poesia “Poeta”: Scrivi poeta / il cuore fai cantare / la mente sognare / Sogna poeta / l’anima fai volare... Una sorta di invocazione alla musa di ogni tempo, che possa sostenere la passione di fuoco del giornalista, del saggista, dell’intellettuale, dell’economista, del sociologo.
Si, perché Michele Petullà è tutto questo, e i molteplici linguaggi culturali con i quali è abituato a cimentarsi e ad esprimersi con abilità e competenza, e fortemente presenti anche in questi Frammenti, diventano microcosmi incastonati nella torre d’avorio orientata a nuova quiete, al ritornare, dopo ogni affanno a cui la vita quotidiana ci sottopone, sempre e comunque, a scaldarsi il cuore. 

Il libro è disponibile direttamente
sul sito dell’editore (www.meligranaeditore.com)
e sui principali store online:
(Amazon, www.amazon.it, Ibs, www.ibs.it
Mondadori www.mondadoristote.it
Libreriauniversitaria, www.libreriauniversitaria.it
Feltrinelli, www.lafeltrinelli.it

 

 

 

FIGLINE VEGLIATURO (Cosenza) - È possibile che Gioacchino Da Fiore, un abate calabrese influenzò il pensiero del Sommo poeta fiorentino Dante Alighieri? È quello che la Fidapa Valle del Savuto ha prospettato nel webinar che si è tenuto lo scorso 5 marzo alle ore 18:00. L’evento online dal titolo “Gioacchino Da Fiore illumina Dante Alighieri”, ideato dalla professoressa Alba Carbone, delegata alla cultura del Comune di Figline Vegliaturo, è stato incentrato sull’influenza che Gioacchino Da Fiore ha avuto sulla visione dantesca espressa dal Sommo poeta ne “La Divina Commedia” ed ha celebrato il settecentenario della morte di Dante Alighieri, avvenuta nel 1321.
Gioacchino Da Fiore, monaco cistercense, esegeta nato a Celico intorno al 1145, dopo un viaggio in Terrasanta, prese piena coscienza della sua vocazione monastica ed entrò nell'ordine cistercense, all'abbazia della Sambucina. Ritiratosi in meditazione sulla Sila, in vita eremitica, raccolse intorno a sé dei seguaci con i quali costruì l'eremo di S. Giovanni in Fiore e costituì l'ordine, poi detto florense, approvato da Celestino III con una bolla del 1196. Gioacchino Da Fiore esercitò grande influenza sui suoi contemporanei, che o lo avversarono fieramente o ne furono ardenti seguaci (gioachimiti), tra i quali senza dubbio il Sommo Poeta .
Il 2021. La sezione Fidapa Valle del Savuto. avendo particolarmente a cuore la divulgazione del messaggio di Gioacchino da Fiore, dato che in questo comprensorio, più precisamente a Marzi, Gioacchino da Fiore ha avuto una delle sue Domus, oggi viene ancora celebrato presso il Museo all’aperto "Progetto Paterno" con una maestosa opera ambientale di Vincenzo Maria Mattanò, curata dall’ing. Antonello Tucci.
La scultura ripropone proprio i cerchi trinitari che Dante descrive nel 33° canto del Paradiso, da lui visti nel "Liber Figurarum" di Gioacchino, mirabilmente illustrato e concepito dall’abate per spiegare la propria visione della vita, della chiesa e la collocazione dell’uomo nel mondo, alle persone semplici, svolgendo il ruolo di divulgatore culturale in pieno medioevo.
In un mondo messo in ginocchio da un nemico invisibile, il Covid- 19, che si sta cercando di combattere attraverso la scienza, che ha bisogno di speranza per rinascere dalle sue ceneri come la Fenice, il messaggio gioachimita che ha permeato la cultura occidentale, torna a dare forza e spingere alla resilienza. A tal proposito la Presidente Toman ha citato durante l’incontro una battuta del personaggio di Gioacchino della sua “Trilogia Gioachimita”: “La pace in terra è un progetto, non un sogno”. “Auspico che la figura di Gioacchino Da Fiore, - ha detto ancora la Toman - poco presente nei libri di storia ma molto importante nella cultura calabrese, poiché tra le altre cose ha fondato la città di San Giovanni in Fiore, possa essere attraverso uno sforzo conosciuto più diffusamente”.
L’iniziativa on line è stata moderata da Miriam Coccari ed ha coinvolto un gran numero di partecipanti collegati non solo dalla Calabria ma anche dalla Toscana. I saluti sono stati affidati ad Adriana Toman, presidente della Sezione Fidapa Valle del Savuto, regista e autrice drammaturgica della “Trilogia Gioachimita”, edita da Rubbettino; una raccolta di tre opere teatrali dedicate appunto all’esegeta calabrese vissuto nel 1100, nonché di un documentario dal titolo “Gioacchino da Fiore profeta della globalizzazione”.
L’evento on line ha registrato la partecipazione della Presidente Nazionale Cettina Oliveri, la Presidente Distrettuale Rossella del Prete, della Vice Presidente Distrettuale Patrizia Pelle, la segretaria distrettuale Pina Genua Rugiero, delle Presidenti Fidapa di Rende, Maria Pia Galasso, Katia Reda, Università degli Studi "Magna Graecia" di Catanzaro, Elena Pistilli, Vice presidente della sez. di Rende, Anna Cerrigone past president della sezione di Cosenza, di Anna Maria Repice della sez di Tropea e ancora di Giusy Porchia, past president Distretto Sud Ovest, nonché delle presidenti della Toscana: Nela Munich, Sezione Fidapa Firenze Centro, e Beatrice Vannini, Massa Carrara; hanno partecipato, altresì, Fiammetta Galleni, della Versilia, e tanti esterni alla Fidapa, sostenitori del pensiero gioachimita come Francesca Mastrovito per Zonta International, lo psicologo Gaetano Marchese, l’ex Presidente della Regione Calabria Mario Oliverio, nonché altre importanti personalità. I relatori, tutti di alta caratura, hanno relazionato con passione e competenza l’incontro on line, molto interessante e ricco di cultura. Il Primo intervento è stato affidato a Fiorangela d’Ippolito, dirigente scolastica, che ha presentato con molta passione e preparazione le figure di Dante e Gioacchino da Fiore. Intervento di alta caratura è stato anche quello del Presidente del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti, Riccardo Succurro, che ha messo in evidenza il 12° canto del Paradiso in cui Dante colloca l’abate florense tra gli “Spiriti Sapienti”, i beati che appaiono a Dante nel IV Cielo del Paradiso con i famosi versi “e lucemi da lato il calavrese abate Gioacchino di spirito profetico dotato”. Alla professoressa Maria Cristina Parise Martirano, Presidente della Società Dante Alighieri di Cosenza, è stata affidata una interessante digressione sul romanzo di Coriolano Martirano, che vede Dante protagonista, rifugiato in Sila per sfuggire alla condanna del 1302 da parte del governo fiorentino, per le sue posizioni politiche.
"Nella nostra Sila il sommo poeta, racconta Martirano, avrebbe conosciuto l’abate Gioacchino attraverso il racconto di Luca Campano, ed è proprio qui che avrebbe avuto la visione di come sarebbe stato l’Inferno dantesco".
Ricordiamo che il prossimo 25 marzo si terrà, nei limiti delle restrizioni anticovid , il Dantedì, data che gli studiosi individuano come l'inizio del viaggio ultraterreno della Divina Commedia.

 

 

La letteratura torna protagonista nella vita culturale della città di Viterbo e lancia una chiamata a tutte le penne d’Italia e non solo.
Quest’anno, infatti, il Premio Letterario TUSCIA LIBRIS diventa internazionale con la sezione D “Io scrivo: lo straniero che è in me”.
L’obiettivo principe di questa competizione è l’incentivazione dell’arte dello scrivere, che anche e soprattutto in questo periodo di pandemia può aiutare a tirare fuori emozioni.
Il contest, riservato ai racconti inediti, non pone limiti di età per la partecipazione: vi sono infatti sezioni aperte agli adulti (che potranno partecipare singolarmente o con racconti scritti da più autori, in collettivo) e una sezione interamente dedicata ai più piccoli, i quali potranno inviare un testo scritto singolarmente oppure insieme a tutta la propria classe.
Il premio è organizzato con il partenariato e il sostegno dell’associazione culturale ProMETEUS, con la collaborazione di Biblioteca Comunale Romolo Bellatreccia di Ronciglione (VT), Archeoares, University, Shockwave Magazine, Il Fascino del Passato e con il patrocinio del Comune di Viterbo, Provincia di Viterbo, BPW ITALY – FIDAPA Sezione di Viterbo, Camera di Commercio di Viterbo, Centro Studi e Ricerca Il Leone, Tusciaup, Radio Tuscia Events e Parole a Km 0.
Il Premio arrivato alla sua seconda edizione si pone l’obiettivo di salvare le storie della cultura della Tuscia e non sono considerato che quest’anno è prevista anche una sezione a tema libero. Con la scrittura, la quantità di informazioni conservabile e il patrimonio di conoscenze non viene disperso, ma è tramandato da una generazione all'altra.
E per fare questo gli organizzatori del Tuscia Libris daranno alle stampe una antologia con i racconti premiati e una selezione di racconti meritevoli, che come è successo nella scorsa edizione è diventato il testo di letture per molte scuole italiane.
Scadenza presentazione elaborati ore 23,59 del giorno 1 maggio 2021.
Quindi Penne d’Italia, avanti tutta!!

Da qui è possibile scaricare il bando e la domanda di partecipazione:
https://www.concorsiletterari.net/bandi/premio-letterario-internazionale-citta-di-viterbo-tuscia-libris-2-ediz/

 

 

di Danilo Boaretto

GALLIERA VENETA (PADOVA) - Ieri mattina, dopo lunga malattia, Gianfranco Cecchele ha cessato di soffrire. Ha combattuto sino all'ultimo il vecchio leone di Galliera e l'ha fatto circondato dagli affetti della sua numerosa e splendida famiglia: i figli Stefano, Maurizio, Vania, Rosanna, Lorenzo e la moglie Antonietta. A loro vanno le più sentite condoglianze mie e della redazione di OperaClick.
Il mondo dell'opera ha perso un grande artista che fu grande protagonista su tutti i palcoscenici mondiali dagli annii '60 sino ai primi anni di questo secolo ma chi ha avuto modo di conoscerlo e frequentarlo sa che non meno grave è la perdita dell'uomo. Si perchè Gianfranco, così mi aveva espressamente chiesto di chiamarlo, era persona dai grandi valori morali: per stare vicino alla famiglia non esitò a sacrificare parte della sua vita professionale oltreoceano. Ma anche nei rapporti con gli amici appariva persona di grande schiettezza, sincerità, generosità e trasparenza.
Gli ero affezionato ed in questo momento non me la sento di scrivere di più. Tuttavia, per ricordare la sua grande carriera e parte della sua vita, vi riporto di seguito la biografia che scrissi una quindicina di anni fa e che a lui piacque molto. Al termine della stessa sono disponibili alcuni audio sufficientemente esplicativi della vocalità di Cecchele, ma vi consiglio anche di fare un giretto su youtube a questo link per trovare moltissime registrazioni interessanti del leone di Galliera.

Pubblicato da "OperaClick" il 13 dicembre 2018

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GIANFRANCO CECCHELE nasce a Galliera Veneta (PD) il 25 giugno 1938 da Ettore e Lidia Flaminio, preceduto dalla sorella Gabriella e seguito dal fratello Tino.
Il padre possedeva un negozio di merceria grazie al quale, durante il periodo di guerra caratterizzato dai razionamenti alimentari, era in grado di effettuare dei baratti con i contadini, consentendo alla famiglia di vivacchiare.
Naturalmente, com’era consuetudine e spesso necessità all’epoca, il giovane Gianfranco inizia prestissimo ad aiutare il padre nel lavoro (dopo aver terminato gli studi delle tre classi superiori di avviamento commerciale) ed altrettanto presto inizia il suo avvicinamento alla musica. Come accadde per molti grandi cantanti di inizio secolo scorso, anche il percorso musicale di Cecchele prende spunto dagli assoli che gli vengono affidati durante le liturgie che si svolgono nella locale parrocchia.
Durante gli anni dell’adolescenza, diventa fisicamente più robusto e prestante rispetto ai suoi coetanei tanto da accarezzare seriamente l’idea di poter divenire pugile professionista. Era il periodo in cui in Italia era ancora vivissimo il mito di Primo Carnera (con il quale Cecchele avrà un rapporto di amicizia) e grandi pugili italiani, fra i quali Loi e Mazzinghi, infiammavano le arene di tutto il mondo. E così il diciassettenne Cecchele, di giorno fa il merciaio e di sera frequenta la Sezione Pugilistica dalla FERVE di Castelfranco Veneto con ottimi risultati: sino a diciannove anni vince i tre incontri che gli consentono di essere promosso da “novizio” a “dilettante”. Purtroppo per le sue aspirazioni sportive (fortunatamente per i melomani di tutto il mondo), il padre Ettore costituisce un insormontabile ostacolo al proseguimento della carriera sportiva, rifiutandosi di firmare il documento di responsabilità per il figlio minorenne (all’epoca la maggiore età si raggiungeva a 21 anni).
Dopo la delusione pugilistica il padre decide, quasi a titolo di consolazione, di accompagnarlo alla Fenice di Venezia per quello che sarà il suo primo approccio, seppur da spettatore, all’opera lirica. Si trattava di una recita di Aida con Mario Del Monaco. Gianfranco Cecchele, rimane molto colpito e nonostante la scomodità del posto di loggione, la forza evocativa dell’opera di Verdi lo trascina totalmente in un mondo irreale fatto di danzatrici sinuose, piramidi disegnate su sfondi colorati, cantanti in rilievo soprattutto per la presenza del grande tenore fiorentino.
Poco dopo, appena diciannovenne conosce la sua futura moglie, Antonietta, con la quale nel 1960 convola a nozze. Senza nemmeno avere il tempo di assaporare il nuovo stato civile, con la moglie già incinta, viene chiamato ad assolvere il servizio militare ed è costretto a recarsi ad Avellino per effettuare il CAR.
Per uccidere la noia di quelle giornate passate fra marce e guardie in garitta, si presenta al futuro tenore la prima occasione per esibire la propria voce: per l’organizzazione di una festicciola il Colonnello chiede alle reclute se vi sia qualcuno capace a cantare; era il periodo in cui i semplici appassionati, senza un minimo di preparazione tecnica, cantavano Granada, Torna, ed altre canzoni del genere. Sarà proprio con queste due canzoni che otterrà il suo primo successo, a cui farà seguito il consiglio del Colonnello, secondo il quale Cecchele avrebbe dovuto dedicarsi seriamente all’opera lirica.
E’ la prima volta che qualcuno gli mette “la pulce nell’orecchio” riguardo una possibile carriera di tenore.
Purtroppo però, in quel momento, erano altre le priorità della sua vita: la moglie in gravidanza, la merceria i cui affari non vanno per niente bene, lui costretto al sevizio di leva. Fortunatamente il Presidente Gronchi, al quale si rivolge scrivendogli una lettera per spiegare la delicata situazione famigliare, gli fa pervenire il congedo permettendogli di tornare a casa dopo il nono mese di leva (all’epoca il servizio di leva durava diciotto mesi).
Tornato a casa si dedica con impegno alla famiglia dimenticando presto il consiglio del Colonnello. Ma evidentemente il destino aveva già preso la sua decisione: nel 1961 durante una festa patronale, il ventitreenne Cecchele sale su di un piccolo palcoscenico, improvvisato durante una festa patronale e canta ancora Granada (evidentemente all’epoca non possedeva un gran repertorio).
Caso vuole che fra il pubblico vi sia una persona che lo registra e lo fa ascoltare al padre Ettore che è ancora totalmente ignaro delle doti di suo figlio. La registrazione viene portata da un parente (Franco Dalla Pria) che in quel periodo studia canto da Marcello Del Monaco, il quale senza esitazioni, carica in macchina questo giovane disposto ad ogni sacrificio pur di migliorare la condizione sociale della sua famiglia e lo porta dal famoso maestro per un’audizione.
Il 25 giugno 1962 sostiene la sua prima lezione e dopo soli sette mesi di lezioni partecipa al Concorso del Teatro Nuovo di Milano che all’epoca forniva ai vincitori la possibilità di debuttare in un’opera presso lo stesso teatro milanese. I partecipanti al concorso hanno tutti almeno due anni di studio sulle spalle, ma Cecchele riesce lo stesso a vincere il concorso, cantando coraggiosamente tre brani che gli consentivano di evidenziare le enormi potenzialità vocali e l’indubbia flessibilità della sua voce: Celeste Aida, Forse la soglia attinse, Meco all’altar di Venere con tanto di cabaletta.
Il comm. Colombo che presiedeva il concorso e che molto probabilmente pensava ad una Tosca come saggio finale, gli chiede se può aggiungere alle arie già cantate, anche E lucevan le stelle. Cecchele risponde con fermezza che avendo già cantato quei terribili pezzi, non vedeva ragione per cui avrebbe dovuto cantare la romanza richiesta. In realtà Cecchele non aveva ancora avuto il tempo materiale per studiare nulla di Puccini; quindi vince il concorso ma rinuncia alla premiazione per tornare subito a casa e riprendere gli studi. In quel periodo ogni tanto chiedeva a Marcello Del Monaco se davvero, secondo lui, possedeva le qualità per distinguersi fra i tanti, dato che erano molti i sacrifici, anche economici che stava facendo e non poteva permettersi nessun genere di spreco. Il M° Del Monaco ne era convinto e durante i primi mesi del 1964 i fatti gli danno ragione. Dopo mesi di impegno e sacrifici Cecchele viene chiamato dal Teatro Bellini di Catania per debuttare il 5 marzo nel ruolo protagonista de La Zolfara di Giuseppe Mulé. Nonostante il rischio palese per un giovanissimo, di cantare un ruolo verista, drammatico sia vocalmente che scenicamente, in un’opera che in seguito non verrà più ripresa, il tenore di Galliera riesce ad imporsi ed a far si che si diffonda immediatamente, presso gli altri Enti lirici, la notizia di un giovane tenore che, dotato di un fisico prestante e atletico, vocalmente ricorda Mario Del Monaco.
Infatti la carriera di Cecchele prende il volo in maniera fulminea: di ritorno dalla Sicilia si ferma per un’audizione a Napoli dove il sovrintendente Di Costanzo, dopo essersi raccomandato, come erano soliti fare quasi tutti, di non rovinare un simile patrimonio vocale affrontando precocemente un repertorio troppo pesante, gli propone di cantare Pollione in Norma… ruolo che come ben sanno gli appassionati d’opera, non è proprio da tenore lirico.
Proseguendo sulla strada del ritorno Cecchele effettua una sosta fruttuosa a Roma per un’audizione al Teatro dell’Opera; infatti il sovrintendente Vitale gli fa firmare un contratto per tre recite di Aida alla Terme di Caracolla.
E’ facile ora notare la spregiudicatezza di certe scelte, ma c’è da pensare che per Cecchele era difficile se non impossibile rifiutare queste proposte, soprattutto agli inizi quando era desideroso di conquistarsi quell’ indipendenza economica, da tempo agognata. Tra l’altro erano passati i tempi in cui una voce determinava la scelta di un’opera, ora ci si trovava semplicemente di fronte ad un prendere o lasciare.
Sempre durante il 1964, con appena un’opera in repertorio, gli vengono aperte le porte del Teatro alla Scala, consentendogli di debuttare nel mese di giugno, 5 recite in Rienzi di Wagner. Il ruolo non è quello del protagonista, ma si tratta comunque di affiancare il celebre Di Stefano, nella parte non semplice di Adriano Colonna, personaggio che Wagner scrisse per voce di mezzosoprano. L’opera non ottenne un grande successo tuttavia servì a far notare Cecchele a coloro che decisero di affiancarlo a Maria Callas nella celebre Norma parigina.
Durante il mese di agosto si reca a Roma per debuttare, come programmato, in Aida. Il giorno della prima recita (28 luglio) il costume di Radames è vestito da Pier Miranda Ferraro. All’inizio del secondo atto viene annunciato che nonostante le precarie condizioni vocali il tenore avrebbe portato comunque a termine l’opera. Invece la realtà fu diversa: Ferraro rimase afono nel corso del secondo atto ed il maestro Vitale si precipitò in platea per chiedere a Cecchele se fosse stato in grado di continuare l’opera; l’incoscienza giovanile diede al giovane tenore il coraggio di buttarsi nella mischia. Si mise di corsa il costume senza nemmeno il tempo di truccarsi, ed in un attimo era sul palcoscenico. La sua prestazione sarà eccellente sotto tutti i punti di vista e dopo la recita, oltre alle entusiastiche congratulazione, arrivò l’impegno a cantare undici recite anziché le tre previste da contratto. In aggiunta venne anche la proposta a cantare il Don Carlo con la regia di Luchino Visconti per l’inaugurazione della stagione romana 1965-66, con la direzione di Carlo Maria Giulini.
Nel giro di un anno lo sconosciuto merciaio di Galliera Veneta si era trasformato in uno dei tenori emergenti più richiesti. Dal 1964 al 1966 aggiungerà al suo repertorio che inizialmente annoverava solamente La Zolfara, anche Aida, Norma, Don Carlo, Cavalleria Rusticana, La forza del destino e Turandot; impresa non di poco conto!
Nel 1965 canta Norma alla Scala diretto da Gavazzeni con protagonista Leyla Gencer, dopo aver debuttato il ruolo di Pollione nel corso di due recite a Oviedo, effettuate nel settembre dell’anno precedente. Nello stesso anno riprende il ruolo al S.Carlo di Napoli, ma soprattutto viene scritturato dall’Opera di Parigi per cantare in Norma con la Callas quale protagonista dell’opera. Come si può immaginare, il personaggio Callas, ormai a fine carriera, monopolizzò le critiche della stampa internazionale e ben poco spazio venne riservato ai suoi colleghi, tuttavia Cecchele non passò inosservato e piacque soprattutto per la freschezza vocale e la nobile interpretazione.
Ormai la celebrità del tenore di Galliera è in crescita costante e quasi tutti i più celebri teatri del mondo non si lasciano scappare l’occasione di avere questo giovane artista dotato di una vocalità facile, svettante, piena, unita ad una presenza scenica di sicuro effetto, sui loro palcoscenici: Staatsoper di Vienna (Aida, Forza e Tosca), Scala di Milano (Norma, Aida, Cavalleria, Loreley, Turandot), Teatro dell’Opera di Roma (Aida, Wallestein, Don Carlo, Tosca, Turandot, Alzira, Fanciulla) e poi Parigi (Norma), Regio di Parma (Simon Boccanegra), S.Carlo di Napoli (Norma, Aida, Forza, Turandot, Gioconda con R.Tebaldi), Chicago (Cavalleria, Norma), Nizza (Tosca), Palermo (La forza del destino), Amburgo (Aida), Monaco (Simon), Arena di Verona (Forza e Cavalleria), Ginevra (incisione Decca), Montreal (Nabucco), Comunale di Firenze (Norma), Metropolitan di New York (Norma) – Carnegie Hall (Alzira), Philadelphia (Tosca), Teatro Regio di Torino (Forza) – RAI (Turandot); per un totale di 241 recite effettuate nel corso dei primi cinque anni di carriera.
Mi soffermo su questi dettagli perché li reputo molto importanti per far capire cosa costituì il fenomeno emergente Cecchele, nel quinquennio ’64 – ’69 per i maggiori teatri d’opera del mondo.
Nessuna gola avrebbe potuto reggere un simile tour de force, soprattutto cavalcando un repertorio massacrante che ormai comprende opere del primo Verdi, del Verdi maturo, del Puccini lirico e di quello lirico spinto, del verismo più conclamato con Mascagni e Catalani, oltre a Pollione che è diventato un po’ il suo biglietto da visita.
Infatti anche il pregiato organo fonatorio di Cecchele non fa eccezione e nei primi mesi del 1969, causa un’influenza trascurata per tenere fede ai contratti, inizia un periodo di crisi vocale. Continuando a cantare, ignorando l’indisposizione, Cecchele si ritrova a dover combattere una tonsillite che malgrado le cure diventa cronica. La voce non ubbidisce più ai comandi ed il 31 luglio è costretto a farsi togliere le tonsille, naturalmente sospendendo ogni attività professionale. L’operazione riesce perfettamente tuttavia dopo qualche mese, cominciando a vocalizzare, si accorge che la cavità orale è cambiata, è diventata più grande e cantando le sensazioni sono diverse rispetto a prima. Per ritrovare la giusta emissione torna dal maestro Marcello Del Monaco, ma i risultati non arrivavano. E’ per questa ragione che con caparbietà, decide di riprendere a studiare da solo e nota su nota, semitono su semitono, divenendo maestro di se stesso, riesce a ritrovare la strada giusta riacquistando la precedente sicurezza e addirittura guadagnando in volume e spessore vocale, tanto da poter arrivare ad eseguire un’opera massacrante come Otello.
Nel frattempo nell’ambiente lirico si erano sparse voci che davano Cecchele per finito e per questo motivo il rientro avrebbe potuto complicarsi; fortuna vuole che precedentemente aveva firmato con alcuni teatri, dei contratti a lunga scadenza che gli consentirono di rientrare nonostante le ostilità date da un ambiente che perdona poco.
Lo stesso Cecchele in un intervista rilasciata nel 1978 a Lorenzo Allegri e pubblicata dal settimanale Gente racconta:
“Ho commesso molti errori. Non avevo consiglieri né amici veri. Le persone che mi stavano intorno lo facevano per interesse. Ricevevo offerte da tutto il mondo ed accettavo tutto . Una sera cantavo “Norma” e la sera dopo un’opera moderna, sottoponendo le mie corde vocali a sforzi tremendi. Dopo cinque anni di carriera cominciai ad accusare disturbi di gola: ascessi, laringiti, afonia improvvisa. Gli acuti non mi venivano più limpidi e sicuri come una volta. Cominciai anche a fare delle stecche… La situazione peggiorò fino a diventare insostenibile… Non ero più il tenore sicuro dalla voce trionfante. Un giorno dissi a mia moglie: “Basta, torno a fare il contadino. Ho guadagnato abbastanza per farmi una bella casa e son contento. Non accetto di essere scritturato solo perché porto un nome famoso. Riprenderò a cantare quando riuscirò ad avere la voce di una volta. Troncai realmente la carriera. Tutti dicevano che ero pazzo. “Nel mondo della lirica i rientri sono impossibili” mi ripetevano cantanti e direttori d’orchestra. “Se vai fuori dal giro, sei finito”. Non mi interessava. Volevo soltanto ritrovare la mia vera voce”.
Al suo rientro anche coloro i quali avevano già catalogato Cecchele come tenore finito, saranno costretti ad ammettere che si sbagliavano di grosso. A riprova della bontà della strada ritrovata vi è l’elenco di recite cantate con enorme successo nel corso del 1970 e sullo stesso massacrante repertorio, su cui si era assestato prima dell’operazione.
Dal 1970 sino alla metà degli anni ’90 la carriera di Gianfranco Cecchele navigherà a vele spiegate senza incappare più in nessun rallentamento, addirittura aggiungendo al suo repertorio la venticinquesima opera verdiana: quell’Otello che da sempre è l’opera più temuta e allo stesso tempo, desiderata da ogni tenore.
Purtroppo il debutto del ruolo di Otello avvenuto a Bonn nel 1981, passò quasi inosservato in Italia, mentre Von Dieter Gerber, temuto critico del “General Anzeiger” scriveva: “Cecchele è stato presente nel gioco scenico come meglio non avrebbe potuto. Non si è fatto impressionare da questa ardua parte di tenore che ha delle frequenti esplosioni e che alla fine del secondo atto potrebbe condurre al limite delle possibilità. Ma non per lui che raccoglie intelligentemente i suoni, brilla nei timbri acuti e nei colori e tiene testa alla forza vocale del suo rivale Piero Cappuccilli.”
Come spesso accade presso i più importanti teatri italiani, anche in questo caso, è andata sprecata un’importante occasione per poter vedere e ascoltare uno dei più credibili artisti che hanno impersonato il ruolo di Otello negli ultimi venti anni di teatro d’opera.
Cecchele è stato il tenore verdiano per antonomasia.
Con la sua vocalità da lirico pieno, squillante, di bel colore, supportata da una tecnica che gli consente di essere sempre molto “presente” e di infiammarsi scolpendo frasi di notevole impatto drammatico, è riuscito a rendere credibili i ruoli verdiani, tra l’altro ponendo sempre molta attenzione ai segni di espressione presenti nelle partiture del Cigno di Busseto.
Cecchele è un tenore che nell’arco della sua lunga carriera, molto probabilmente ha raccolto più successi di pubblico che di critica. Come è accaduto anche per altre voci importanti anche Cecchele ha dovuto pagare lo scotto di una vocalità che ha ottenebrato la lucidità di alcuni critici, soprattutto in un periodo come il ventennio ’70 – ’80, nel quale lo sport preferito dalla critica di stampo cellettiano sembrava essere divenuto la revisione in negativo di tutti quegli artisti dotati di grandi vocalità e personalità: su tutte quella enorme di Mario Del Monaco.
Fortunatamente questo sport oggi non è più così di moda e si sta tornando a rendere i giusti meriti, a questi artisti, fra i quali figura di buon diritto anche Gianfranco Cecchele.
Ulteriore rammarico ci è dato pensando alla discografia ufficiale di Gianfranco Cecchele che avrebbe dovuto, senza dubbio essere più nutrita. Da appassionato avrei desiderato possedere un ricordo del suo Manrico, di un suo Arrigo dei Vespri, di un appassionato Des Grieux, ovviamente del suo Otello. Fortunatamente ho scoperto che queste opere - centinaia di registrazioni sia audio che video - esistono assieme a un fornitissimo catalogo che racchiudono i 43 anni di carriera del M° Gianfranco Cecchele.
Oggi, nonostante riceva ancora molte proposte di lavoro da parte di molti teatri, dopo quarant’anni passati in continuo frenetico movimento da un capo all’altro del mondo, ha deciso di godersi un po’ più a fondo la sua casa di Galliera Veneta, la sua famiglia e i vecchi amici, rallentando sensibilmente la sua attività.

Danilo Boaretto 

 

 

Un omaggio per l'ultima puntata dell'8 marzo 2021 che chiude la saga del Commissario Montalbano, ma... non per chi come me è "malata" del Maestro Andrea Camilleri e del suo indelebile personaggio.

 

IL MAESTRO CHE RACCONTA

Creatività.
Potenza.
Vigore.
Onestà.
Verità.
Beffarda risata,
ma che regala speranza.
Sentimenti giusti,
a volte smarriti,
vaghi,
ma trovati nelle pieghe libere del vento.
Slegarsi dalla contemporaneità,
con un'insolente "babbiata".
Frenesia.
Scioltezza.
Masticare dialetti,
come tabacco,
per sputare aforismi di vita.
Odore di salsedine,
terra,
zagara.
Respiro rovente,
ma dolce.
Carezza del sole,
che bacia la schiena.
Semplicità.
Coerenza.
Il tutto,
gocciolato dall'inchiostro,
che divaga sulla carta
mentre il rumore dei tasti di Olivetti
librano nell'aria
come...
"scrusci di mare".

(Alessia Piemonte)