di Massimo Reina
Oggi, come ogni anno, i ladri si vestono da paladini e intonano inni ai derubati.
Sindacati che non difendono più nessuno, politici che non lavorano da una vita, presidenti che recitano a memoria discorsi scritti da altri, tutti in fila a celebrare il lavoro. Quel lavoro che loro hanno svenduto, umiliato, tradito.
I lavoratori veri, quelli che sopravvivono con stipendi da fame e contratti da schiavi, dovrebbero disertare queste pagliacciate. Altro che concertoni e frasi fatte. Altro che solidarietà pelosa di chi, finito il selfie di rito, torna ad aumentarsi la diaria o a regalare bonus ai padroni.
Il Primo Maggio dovrebbe essere un giorno di rabbia. Di sciopero generale. Di piazze piene, non di chitarre stonate.
Perché chi oggi si riempie la bocca di "diritti" è il primo a calpestarli. E chi finge di onorare il lavoro è il primo a condannarlo all’agonia.
Retorica da discount
Anche quest’anno, puntuale come un conguaglio IMU, è arrivato il Primo Maggio. Non quello dei lavoratori, che avrebbero tutto il diritto di festeggiare ogni singolo giorno dell’anno, ma quello dei parassiti, dei venditori di fumo, dei sindacalisti in pensione anticipata e dei politici in servizio permanente effettivo al banchetto dell’ipocrisia.
Sfilano in tv i soliti zombie della rappresentanza sindacale, quelli che firmano contratti capestro tra un buffet e un brindisi a Prosecco, che parlano di "centralità del lavoro" mentre assistono muti alla carneficina degli stipendi da 900 euro, ai part-time mascherati, agli straordinari non pagati, ai ricatti quotidiani a chi osa solo sognare di chiedere rispetto.
Nel frattempo, i governanti e le finte opposizioni — quelli che dovrebbero tutelare chi produce ricchezza vera — sono troppo occupati a spartirsi ministeri, poltrone e consulenze. Salario minimo? Ah, magari l’anno prossimo, tra una promessa elettorale e una supercazzola istituzionale. Sicurezza sul lavoro? Vedremo, c’è la "task force". Intanto i morti sui cantieri aumentano, ma tranquilli: "faremo luce".
E come ogni 1° maggio che si rispetti, non poteva mancare lui: Sergio Mattarella, la reliquia democratica buona per tutte le stagioni. Lì, a declamare come un chierichetto annoiato il solito bollettino di buone intenzioni: "diritti", "legalità", "rispetto". Peccato che il Presidente difenda molto meglio gli interessi dei palazzi, dei burocrati e della casta italica ed europea che quelli degli italiani costretti a lavorare sottopagati, precari e ricattati.
Nel suo messaggio — che ormai ogni anno pare copiato col copia-incolla — Mattarella si guarda bene dal toccare i nervi scoperti: la schiavitù moderna dei rider, le false partite IVA, il caporalato mascherato da "flessibilità", le aziende che ti assumono oggi e ti licenziano domani, come se il lavoratore fosse una merce da cambiare su Amazon.
Intanto nelle piazze si balla, si canta, si grida "Viva il lavoro!" — mentre la metà dei ragazzi sogna solo di scappare all’estero per avere uno stipendio decente. Gli imprenditori veri arrancano sotto montagne di tasse e burocrazia. Gli operai fanno i salti mortali per mettere insieme il pranzo con la cena. I precari si tengono stretti contratti da fame pur di non finire nel limbo dei disoccupati cronici.
Ma guai a dirlo: rovinerebbe la sceneggiatura della grande messinscena nazionale. E allora avanti, tutti in coro: Viva il lavoro! Viva i lavoratori! Viva il Primo Maggio! Peccato che di vero, in questa giornata, sia rimasta solo la fatica di chi lavora davvero. Il resto è fuffa, passerella, e retorica da discount.
Il lavoro rende liberi, dicevano cinicamente i carnefici ad Auschwitz. Qui da noi, nel 2025, il lavoro rende schiavi. E gli schiavisti — politici, sindacalisti, burocrati, multinazionali — festeggiano pure. Alla faccia nostra.