Un sistema malato, prima ancora delle sue vittime
di MONICA VENDRAME
Non è solo la storia di un uomo, un primario rispettato, che per anni ha abusato del suo potere. È la storia di un ambiente che ha permesso che tutto questo accadesse, in silenzio. Trentadue violenze sessuali in quarantacinque giorni, tutte documentate dalle telecamere della polizia: un ritmo agghiacciante, quasi metodico. Donne – dottoresse, infermiere – entrate nel suo ufficio per lavoro e uscite violate. Eppure, ci sono voluti anni prima che qualcuno trovasse il coraggio di rompere il muro dell’omertà.
Emanuele Michieletti, 60 anni, radiologo di fama, volto noto durante la pandemia per le sue interviste sulla cura del Covid, è oggi agli arresti domiciliari con l’accusa di violenza sessuale aggravata e atti persecutori. L’Ausl di Piacenza lo ha licenziato per giusta causa, ma il provvedimento non è stato pubblicato sull’albo pretorio. Un dettaglio non trascurabile, perché la trasparenza, in casi come questi, non è una formalità: è un segnale politico.
L’indagine è partita dalla denuncia di una dottoressa aggredita nello studio del primario mentre discuteva il piano ferie. Chiusa a chiave, costretta a subire, salvata solo dall’arrivo improvviso di un collega. Ma quante altre prima di lei avevano taciuto? Gli investigatori parlano di un clima di paura e ricatto: alcune vittime hanno ritrattato, altre hanno ammesso gli abusi solo dopo essere state identificate nei filmati. E c’è chi, pur confermando, ha chiesto di non procedere. Perché denunciare un uomo potente, in un sistema sanitario già fragile, significa spesso mettere a rischio la propria carriera, la propria reputazione, persino la propria salute mentale.
Il presidente della Regione Emilia-Romagna, Michele de Pascale, parla di un “quadro gravissimo, maschilista e patriarcale”, promettendo verifiche disciplinari. Ma è difficile ignorare il sottofondo di un’emergenza più ampia: Piacenza non è nuova agli scandali. Solo nell’ultimo anno, un medico di base arrestato per spaccio di oppiacei e una dottoressa del Pronto Soccorso accusata di traffico illecito di morfina. La Lega chiede a gran voce il commissariamento dell’Ausl, il Pd sollecita interrogazioni e tutele per le vittime. Tutti concordano sull’orrore, pochi ammettono che il problema è sistemico.
Come è potuto accadere, per così tanto tempo, senza che nessuno alzasse un vero allarme? Perché servono telecamere e denunce formali per smascherare un predatore che agiva alla luce del sole? La verità è che le strutture di potere – specie in ambito medico, dove l’autorevolezza professionale si mischia al paternalismo – sono terreno fertile per abusi. E finché non si rompe la catena del silenzio, finché le vittime saranno lasciate sole a combattere, casi come questi non saranno eccezioni, ma sintomi di un male più profondo.
Quello di Piacenza non è un “caso”. È lo specchio di una cultura che normalizza la violenza finché non diventa scandalo, che protegge i potenti finché non sono incastrati dalle prove. Licenziare Michieletti non basta. Servono sportelli indipendenti, protocolli chiari, un cambiamento radicale nel modo in cui si gestisce il potere. Perché la vera cura, in questa storia, non è solo giustizia per le vittime, ma la prevenzione di un prossimo, ennesimo, silenzio.