Colors: Blue Color

 

di Arianna Di Presa

Il calore umano, la positività verso il flusso della vita sono le qualità principali che rappresentano l’eclettismo di Roberta Di Maurizio. L’artista vive e lavora ad Atri in provincia di Teramo. La sua arte conferisce un’esplosione di colori che trova dimora nell’assetto sociale con tematiche di straordinaria valenza educativa, al fine di soffermarsi intensamente sul mondo circostante. I suoi cromatismi rappresentano la corsa verso un’umanità altra, una dedizione all’atto creativo per se stessa, ma in particolar modo rivolto alle categorie più fragili. Di Maurizio da circa un e mezzo dalla pandemia ha dedicato il suo spirito vulcanico alla disgregazione universale, in favore di una rinascita. I protagonisti del suo percorso sono stati i bambini e le rispettive famiglie che hanno avuto l’occasione di cimentarsi nella creatività, durante i corsi di pittura online da lei attuati; in seguito gli anziani che sono stati guidati ad esprimere liberamente emozioni represse tramite il disegno, un veicolo per attutire il disagio represso. Proseguendo sempre nel periodo pandemico, Di Maurizio ha avuto la strabiliante idea di realizzare mostre virtuali per tutti gli artisti che volessero farne parte.

 

THE CANTERBURY TALES: THE PROLOGUE (Geoffrey Chaucer)

When in April the sweet showers fall
And pierce the drought of March to the root, and all
The veins are bathed in liquor of such power
As brings about the engendering of the flower,
5-When also Zephyrus with his sweet breath
Exhales an air in every grove and heath
Upon the tender shoots, and the young sun
His half-course in the sign of the Ram has run,
And the small fowl are making melody
10-That sleep away the night with the open eye
(So nature pricks them and their earth engages)
Then people long to go on pilgrimages
And palmers long to seek the strangers strands
Of far-off saints, hallowed in sundry lands,
15-And specially, from every shire’s end
Of England, down to Canterbury they wend
To seek the holy blissful martyr, quick
To give his help to them when they were sick.

“Quando aprile con le sue dolci piogge ha penetrato fino alla radice la siccità di marzo, impregnando ogni vena di quell’umore che ha la virtù di dar vita ai fiori, quando anche zeffiro col suo dolce fiato ha rianimato per ogni bosco e per ogni brughiera i teneri germogli, e il nuovo sole ha percorso metà del suo cammino in ariete, e cantano melodiosi gli uccelletti che dormono tutta la notte ad occhi aperti (tanto li punge in cuore la natura), la gente allora è presa dal desiderio di mettersi in pellegrinaggio e d’andare come palmieri per contrade forestiere alla ricerca di lontani santuari variamente noti, e fin dalle più remote parti d’ogni contea d’Inghilterra molti si recano specialmente a Canterbury alla ricerca del santo martire benedetto pronto ad aiutarli quando erano malati…”

 di Arianna Di Presa

Come una ventata di desideri esplorativi ci si addentra nel mondo onirico di Anna D’Elia. Un’artista elegante e raffinata che trasferisce i palpiti dell’anima verso un cripticismo difficilmente decifrabile. La sua pittura non conosce spazi e contiene significati d’indagine da analizzare con costanza, nei loro movimenti alti e sinfonici protesi verso un mondo meditativo eccellente, un fiume lirico per scoprire l’anima. D’Elia lascia il fruitore in sospeso tra il silenzio latente ed interpretabile con uno sguardo diretto nella dimensione sovraumana che si addensa nella potenza del sogno, esplicata in un linguaggio interno e superiore rispetto all’umanità. I suoi cromatismi dunque, costituiscono un varco di evasione affine al sentiero emotivo, impervio durante le salite e ascendente nella continua ricerca del Sé in un interminabile processo evolutivo. È l’anima che funge da protagonista indiscussa nelle realizzazioni di Anna D’Elia, in un perpetuo misticismo edulcorato da motivi di tessitura preponderante. Tra sogno e realtà pertanto, è il principio biblico che invita gli spettatori ad entrare in una sovrapposizione di mondi sospesi nella materia e rivelatori di preziose visioni ,dove è l’incanto a voler primeggiare nel suo destreggiarsi limpido e surreale. L’artista ottiene numerosi riconoscimenti trasmettendo la sua vocazione sognante ad un vasto pubblico, dove il mutare interiore diviene una pagina aulica per sorgere e risorgere senza limitazioni. È sempre la profondità a padroneggiare la tassonomica razionalità, una parte minimale sovraccaricata dai fluidi tocchi cromatici che tende a spostare l’attenzione su aeree prospettive. Un viaggio a contatto con i misteri universali è tutto ciò che la D’Elia dona incondizionatamente alle impronte esistenziali, che desumono una calma eterea e riflessiva al fine di non giungere ad una conoscenza totalizzante dell’Essere.

“La densità dell’anima

è vento fatale

che scorre tra i brividi delle stelle."

 

L’opera, vincitrice del premio Strega nel 1963, anno della prima edizione del romanzo per la casa Editrice Einaudi, è la storia della famiglia della scrittrice Natalia Ginzburg, nata Levi, ebrea da parte del padre e cattolica per madre, ambientata a Torino nel periodo tra il 1930 e il 1950. Attraverso una sorta di monologo interiore, un indiretto libero, l’autrice ricostruisce i ricordi della sua famiglia, le vicende  e le abitudini della sua infanzia trascorsa nella città piemontese: le vacanze con i suoi fratelli e i loro giochi; il sopraggiungere dell’età adulta con i figli da proteggere dalla guerra e dalle persecuzioni; il padre, Giuseppe Levi, professore universitario burbero, un po' dispotico ma nello stesso tempo “paterno e affettuoso”; la madre Livia, vivace e allegra;  la frequentazione con noti intellettuali e politici della Torino antifascista, come:  Turati, Olivetti, Pavese, Montale (per citarne alcuni). Una frequentazione ravvicinata e costante se si considera, ad esempio, che Olivetti sposerà la sorella maggiore della scrittrice e Drusilla Tanzi, “Mosca”, la donna tanto amata da Montale, è la zia di Natalie (la sorella della madre). La Ginzburg nel suo romanzo racconta non solo la storia del proprio ambiente familiare ma anche la “storia”: l’ascesa di Mussolini, le leggi razziali, la lotta antifascista, la morte del primo marito Leone Ginzburg, arrestato e ucciso nel ’44 fino agli anni ’50 quando l’amico Cesare Pavese si suicida.

Recensione

L’occasione per rileggere questo romanzo è scaturita dalla partecipazione ad un evento letterario in rete che ha rinnovato il mio interesse per il testo. Affrontarne nuovamente la lettura, a distanza forse di venti anni, con una maturità differente, mi ha consentito di cogliere aspetti che mi erano sfuggiti in precedenza; aspetti legati, non solo ai contenuti narrati, ma anche al modo con cui vengono espressi attraverso il particolarissimo stile della Ginzburg.

Tacciata di aver scritto una sorta di biografia in stile propriamente femminile, da “scrittrice” che può solo parlare, in quanto donna, di sentimenti ed emozioni di nicchia, da chiuso domestico, da romanzo “rosa” di appendice e osteggiata, per tale motivo, dalla critica intellettuale del tempo, la Ginzburg attraverso l’uso del “lessico quotidiano”, di parole ed  espressioni tipiche del gergo di un ambiente famigliare (come lei stessa sottolinea nel titolo – la parola “famiglia” nettamente identificata nell’aggettivo e non “familiare” che evoca, invece, qualcosa di genericamente collegato, similare al nucleo originario); con l’uso preciso dei nomi e cognomi dei personaggi che sono reali, non d’invenzione (gli uomini e le donne che hanno attraversato la sua esistenza) la Ginzburg realizza un’indagine interiore  che diventa “esterna”, cioè cronaca, spaccato storico e sociale di quel tempo giungendo, in realtà, ad ogni tempo e persino a questo tempo presente.

Se, infatti, la realtà storica trattata nel romanzo è per alcuni aspetti mutata, per altri ne è rintracciabile la persistenza nelle discriminazioni legate alla razza, alla religione, nella differenziazione economica e sociale fra uomini e donne, nella violenza generalizzata, negli episodi ricorrenti di femminicidio  fino ad arrivare a  quest’oggi “sospeso”, in cui il concetto di famiglia  ritrova, forse, l’originario autentico: essa rappresenta il perno, l’ancora che assicura la permanenza in acque meno agitate, l’elemento di unione in una società che ha perduto ogni possibilità di aggregazione e di contatto.

Lo “scrittore”, come lei stessa si definiva opponendosi allo stereotipo del termine scrittrice, all’aggiunta di un suffisso che sembrava determinare una differenza qualitativamente inferiore per genere, quasi uno “stigma”, diventa allora colui che può, attraverso la narrazione del quotidiano, giungere ad affermare l’universale. Poiché la narrazione della verità passa attraverso “le piccole cose”, le piccole virtù (come dice la Ginzburg nel libro omonimo -che consiglio di leggere).

La verità va oltre, superando se stessi per giungere alla trasparenza di quel “vero”, che assurge a valore universale, al di là di ogni tempo, in un rapporto diacronico fatto di sincronie intellettive e morali.

Autore: Luisa Di Francesco-Taranto

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