Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo Borsellino ucciso dalla mafia,  fondatore del Movimento delle "Agende Rosse" in un post su Fb ha voluto esprimere la sua personale solidarietà al Giudice Gratteri, ultimamente oggetto di feroci polemiche fondate su una presunta posizione negazionista verso la pandemia Covid prontamente smentita dallo stesso Gratteri.

 

di Anna Maria Stefanini

Viene prima la commedia all’italiana o viene prima Saturnino (in arte “Nino”) Manfredi? Enigma non soltanto irrisolvibile ma soprattutto mal posto come lo è l’antica questione dell’uovo e della gallina. Tuttavia utile come domanda retorica per mettere subito bene a fuoco la natura del rapporto di Nino Manfredi con il cinema. 

 

di Anna Maria Stefanini

L'umanità è stata benedetta due volte; la prima volta in Africa, circa 160 mila anni fa, quando l’Homo sapiens riceve il dono della parola, probabilmente per effetto di cambiamenti genetici di cui si conosce oggi almeno un componente: il gene denominato FOXP2. Prima di allora il nostro principale canale di comunicazione era il linguaggio mimico-gestuale, probabilmente accompagnato da rudimentali articolazioni sonore. La seconda benedizione non è frutto di un incidente genetico ma di una geniale invenzione umana, effettuata circa 5 mila anni fa in Mesopotamia, quando i Sumeri svilupparono la scrittura alfabetica; la più importante creazione dell’umanità. Questa è anche la data di nascita della cultura scritta che tuttavia non ha rimosso la cultura orale. Da allora la parola ne ha fatta di strada, passando e piegando la storia umana, tra poderose accelerazioni e sfiancanti stagnazioni.

Per una singolare combinazione, la forma espressiva più intima, tenue e riservata è quella di cui si conserva maggiore memoria: la poesia.

Il percorso biologico di Alda Merini nasce e si chiude a Milano fra il 21 marzo 1931 e il 1° novembre 2009 ma potete stare certi che nei secoli a venire il nome di Alda Merini continuerà ad essere pronunciato, scritto e letto insieme alle sue opere poetiche. La vita di Alda non è stata facile; brillante alunna incoraggiata negli studi dal padre Nemo Merini, va incontro ad una precoce crisi mistica con vocazione monacale che la madre, Emilia Painelli, scambia per una malattia da curare con medicine e, come si usava allora, con le botte. Con l’eccezione degli studi, dove Alda eccelle, la gioventù non le risparmia prove durissime, come la casa distrutta in un bombardamento nel 1943, quando aveva 12 anni. Gli anni successivi furono anni da profuga ma questi non riuscirono a trattenere il suo eccezionale precoce talento per la scrittura. Senza aver potuto ricevere nemmeno un’istruzione superiore a 15 anni viene notata per le sue eccezionali doti narrative; dapprima da Angelo Romanò, un letterato diventato, nel 1961, direttore del secondo canale RAI e poi dal poeta e critico Giacinto Spagnoletti (1920-2003) che scrisse per lei un’entusiastica recensione. Ma il padre stracciò la recensione con il duro ammonimento “la poesia non dà il pane”.

L’anno successivo, il 1947, è l’anno in cui compaiono ciò che Alda chiamerà “le prime ombre della mia mente”, ossia l’emergere del quadro clinico oggi classificato come “disturbo bipolare” per via delle frequenti oscillazioni umorali tra stati di grande eccitazione e depressione profonda. Fortunatamente i letterati e i critici suoi estimatori la sostennero in questo calvario mentale indirizzandola dai migliori specialisti del tempo: Franco Fornari e Cesare Musatti.

Malgrado il precoce insorgere della malattia, nel 1950, all’età di 19 anni, grazie a Spagnoletti pubblica due poesie, “Il gobbo” e “la luce”, nell’importante “Antologia della poesia italiana 1909-1949”. L’anno successivo, l’editore Giovanni Scheiwiller, su consiglio del futuro premio Nobel Eugenio Montale, pubblica due poesie di Alda nell’opera Poetesse del Novecento. Risale a quegli anni la sua complicata relazione sentimentale con lo scrittore, critico e accademico Giorgio Manganelli (1922- 1990). Nel 1953 sposa l’operaio-sindacalista Ettore Carniti, dal quale avrà quattro figlie: Emanuela, Flavia, Barbara e Simona. In quegli anni escono quattro opere poetiche interamente scritte da Alda: “La presenza di Orfeo”, “Paura di Dio”, “Nozze romane” e “Tu sei Pietro”. Sfortunatamente quello è il periodo del ritorno del suo disturbo bipolare, culminato nel lungo internamento nell’ospedale psichiatrico “Paolo Pini” dal 1964 a 1972.

Nel 1979 Alda interrompe il suo lungo silenzio e riprende a scrivere pubblicando quello che è considerato il suo massimo capolavoro, “La Terra Santa”, nel quale affiorano i suoi drammatici momenti di isolamento psichiatrico; l’opera, nel 1993 vincerà l’importante Premio Librex Montale. Ma la vita si accanisce ancora su Alda Merini perché nel 1983 muore il marito Ettore ed inizia un lungo periodo di indifferenza da parte di editori e critici.

Nel 1984 si risposa con il poeta Michele Pierri; i due vanno a vivere a Taranto dove Alda ritrova la forza di scrivere. Ma le ricadute, i ricoveri e i versi continuano ad alternarsi con implacabile continuità.

Gli anni ’90 sono gli anni del ritorno a Milano, della serenità e della consacrazione definitiva tra i maggiori poeti italiani contemporanei. E gli anni di una ricca produzione poetica e letteraria.

Nel 2007 scrive in collaborazione col favolista Sabatino Scia “Alda e Io, Favole” che vince il premio Elsa Morante Ragazzi; nello stesso anno le viene conferita la laurea honoris causa in “Teorie della comunicazione e dei linguaggi” dall’Università di Messina.

Alda Merini ci lascia il 1° novembre 2009 all’età di 78 anni.

 

 

di Danilo Boaretto

GALLIERA VENETA (PADOVA) - Ieri mattina, dopo lunga malattia, Gianfranco Cecchele ha cessato di soffrire. Ha combattuto sino all'ultimo il vecchio leone di Galliera e l'ha fatto circondato dagli affetti della sua numerosa e splendida famiglia: i figli Stefano, Maurizio, Vania, Rosanna, Lorenzo e la moglie Antonietta. A loro vanno le più sentite condoglianze mie e della redazione di OperaClick.
Il mondo dell'opera ha perso un grande artista che fu grande protagonista su tutti i palcoscenici mondiali dagli annii '60 sino ai primi anni di questo secolo ma chi ha avuto modo di conoscerlo e frequentarlo sa che non meno grave è la perdita dell'uomo. Si perchè Gianfranco, così mi aveva espressamente chiesto di chiamarlo, era persona dai grandi valori morali: per stare vicino alla famiglia non esitò a sacrificare parte della sua vita professionale oltreoceano. Ma anche nei rapporti con gli amici appariva persona di grande schiettezza, sincerità, generosità e trasparenza.
Gli ero affezionato ed in questo momento non me la sento di scrivere di più. Tuttavia, per ricordare la sua grande carriera e parte della sua vita, vi riporto di seguito la biografia che scrissi una quindicina di anni fa e che a lui piacque molto. Al termine della stessa sono disponibili alcuni audio sufficientemente esplicativi della vocalità di Cecchele, ma vi consiglio anche di fare un giretto su youtube a questo link per trovare moltissime registrazioni interessanti del leone di Galliera.

Pubblicato da "OperaClick" il 13 dicembre 2018

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GIANFRANCO CECCHELE nasce a Galliera Veneta (PD) il 25 giugno 1938 da Ettore e Lidia Flaminio, preceduto dalla sorella Gabriella e seguito dal fratello Tino.
Il padre possedeva un negozio di merceria grazie al quale, durante il periodo di guerra caratterizzato dai razionamenti alimentari, era in grado di effettuare dei baratti con i contadini, consentendo alla famiglia di vivacchiare.
Naturalmente, com’era consuetudine e spesso necessità all’epoca, il giovane Gianfranco inizia prestissimo ad aiutare il padre nel lavoro (dopo aver terminato gli studi delle tre classi superiori di avviamento commerciale) ed altrettanto presto inizia il suo avvicinamento alla musica. Come accadde per molti grandi cantanti di inizio secolo scorso, anche il percorso musicale di Cecchele prende spunto dagli assoli che gli vengono affidati durante le liturgie che si svolgono nella locale parrocchia.
Durante gli anni dell’adolescenza, diventa fisicamente più robusto e prestante rispetto ai suoi coetanei tanto da accarezzare seriamente l’idea di poter divenire pugile professionista. Era il periodo in cui in Italia era ancora vivissimo il mito di Primo Carnera (con il quale Cecchele avrà un rapporto di amicizia) e grandi pugili italiani, fra i quali Loi e Mazzinghi, infiammavano le arene di tutto il mondo. E così il diciassettenne Cecchele, di giorno fa il merciaio e di sera frequenta la Sezione Pugilistica dalla FERVE di Castelfranco Veneto con ottimi risultati: sino a diciannove anni vince i tre incontri che gli consentono di essere promosso da “novizio” a “dilettante”. Purtroppo per le sue aspirazioni sportive (fortunatamente per i melomani di tutto il mondo), il padre Ettore costituisce un insormontabile ostacolo al proseguimento della carriera sportiva, rifiutandosi di firmare il documento di responsabilità per il figlio minorenne (all’epoca la maggiore età si raggiungeva a 21 anni).
Dopo la delusione pugilistica il padre decide, quasi a titolo di consolazione, di accompagnarlo alla Fenice di Venezia per quello che sarà il suo primo approccio, seppur da spettatore, all’opera lirica. Si trattava di una recita di Aida con Mario Del Monaco. Gianfranco Cecchele, rimane molto colpito e nonostante la scomodità del posto di loggione, la forza evocativa dell’opera di Verdi lo trascina totalmente in un mondo irreale fatto di danzatrici sinuose, piramidi disegnate su sfondi colorati, cantanti in rilievo soprattutto per la presenza del grande tenore fiorentino.
Poco dopo, appena diciannovenne conosce la sua futura moglie, Antonietta, con la quale nel 1960 convola a nozze. Senza nemmeno avere il tempo di assaporare il nuovo stato civile, con la moglie già incinta, viene chiamato ad assolvere il servizio militare ed è costretto a recarsi ad Avellino per effettuare il CAR.
Per uccidere la noia di quelle giornate passate fra marce e guardie in garitta, si presenta al futuro tenore la prima occasione per esibire la propria voce: per l’organizzazione di una festicciola il Colonnello chiede alle reclute se vi sia qualcuno capace a cantare; era il periodo in cui i semplici appassionati, senza un minimo di preparazione tecnica, cantavano Granada, Torna, ed altre canzoni del genere. Sarà proprio con queste due canzoni che otterrà il suo primo successo, a cui farà seguito il consiglio del Colonnello, secondo il quale Cecchele avrebbe dovuto dedicarsi seriamente all’opera lirica.
E’ la prima volta che qualcuno gli mette “la pulce nell’orecchio” riguardo una possibile carriera di tenore.
Purtroppo però, in quel momento, erano altre le priorità della sua vita: la moglie in gravidanza, la merceria i cui affari non vanno per niente bene, lui costretto al sevizio di leva. Fortunatamente il Presidente Gronchi, al quale si rivolge scrivendogli una lettera per spiegare la delicata situazione famigliare, gli fa pervenire il congedo permettendogli di tornare a casa dopo il nono mese di leva (all’epoca il servizio di leva durava diciotto mesi).
Tornato a casa si dedica con impegno alla famiglia dimenticando presto il consiglio del Colonnello. Ma evidentemente il destino aveva già preso la sua decisione: nel 1961 durante una festa patronale, il ventitreenne Cecchele sale su di un piccolo palcoscenico, improvvisato durante una festa patronale e canta ancora Granada (evidentemente all’epoca non possedeva un gran repertorio).
Caso vuole che fra il pubblico vi sia una persona che lo registra e lo fa ascoltare al padre Ettore che è ancora totalmente ignaro delle doti di suo figlio. La registrazione viene portata da un parente (Franco Dalla Pria) che in quel periodo studia canto da Marcello Del Monaco, il quale senza esitazioni, carica in macchina questo giovane disposto ad ogni sacrificio pur di migliorare la condizione sociale della sua famiglia e lo porta dal famoso maestro per un’audizione.
Il 25 giugno 1962 sostiene la sua prima lezione e dopo soli sette mesi di lezioni partecipa al Concorso del Teatro Nuovo di Milano che all’epoca forniva ai vincitori la possibilità di debuttare in un’opera presso lo stesso teatro milanese. I partecipanti al concorso hanno tutti almeno due anni di studio sulle spalle, ma Cecchele riesce lo stesso a vincere il concorso, cantando coraggiosamente tre brani che gli consentivano di evidenziare le enormi potenzialità vocali e l’indubbia flessibilità della sua voce: Celeste Aida, Forse la soglia attinse, Meco all’altar di Venere con tanto di cabaletta.
Il comm. Colombo che presiedeva il concorso e che molto probabilmente pensava ad una Tosca come saggio finale, gli chiede se può aggiungere alle arie già cantate, anche E lucevan le stelle. Cecchele risponde con fermezza che avendo già cantato quei terribili pezzi, non vedeva ragione per cui avrebbe dovuto cantare la romanza richiesta. In realtà Cecchele non aveva ancora avuto il tempo materiale per studiare nulla di Puccini; quindi vince il concorso ma rinuncia alla premiazione per tornare subito a casa e riprendere gli studi. In quel periodo ogni tanto chiedeva a Marcello Del Monaco se davvero, secondo lui, possedeva le qualità per distinguersi fra i tanti, dato che erano molti i sacrifici, anche economici che stava facendo e non poteva permettersi nessun genere di spreco. Il M° Del Monaco ne era convinto e durante i primi mesi del 1964 i fatti gli danno ragione. Dopo mesi di impegno e sacrifici Cecchele viene chiamato dal Teatro Bellini di Catania per debuttare il 5 marzo nel ruolo protagonista de La Zolfara di Giuseppe Mulé. Nonostante il rischio palese per un giovanissimo, di cantare un ruolo verista, drammatico sia vocalmente che scenicamente, in un’opera che in seguito non verrà più ripresa, il tenore di Galliera riesce ad imporsi ed a far si che si diffonda immediatamente, presso gli altri Enti lirici, la notizia di un giovane tenore che, dotato di un fisico prestante e atletico, vocalmente ricorda Mario Del Monaco.
Infatti la carriera di Cecchele prende il volo in maniera fulminea: di ritorno dalla Sicilia si ferma per un’audizione a Napoli dove il sovrintendente Di Costanzo, dopo essersi raccomandato, come erano soliti fare quasi tutti, di non rovinare un simile patrimonio vocale affrontando precocemente un repertorio troppo pesante, gli propone di cantare Pollione in Norma… ruolo che come ben sanno gli appassionati d’opera, non è proprio da tenore lirico.
Proseguendo sulla strada del ritorno Cecchele effettua una sosta fruttuosa a Roma per un’audizione al Teatro dell’Opera; infatti il sovrintendente Vitale gli fa firmare un contratto per tre recite di Aida alla Terme di Caracolla.
E’ facile ora notare la spregiudicatezza di certe scelte, ma c’è da pensare che per Cecchele era difficile se non impossibile rifiutare queste proposte, soprattutto agli inizi quando era desideroso di conquistarsi quell’ indipendenza economica, da tempo agognata. Tra l’altro erano passati i tempi in cui una voce determinava la scelta di un’opera, ora ci si trovava semplicemente di fronte ad un prendere o lasciare.
Sempre durante il 1964, con appena un’opera in repertorio, gli vengono aperte le porte del Teatro alla Scala, consentendogli di debuttare nel mese di giugno, 5 recite in Rienzi di Wagner. Il ruolo non è quello del protagonista, ma si tratta comunque di affiancare il celebre Di Stefano, nella parte non semplice di Adriano Colonna, personaggio che Wagner scrisse per voce di mezzosoprano. L’opera non ottenne un grande successo tuttavia servì a far notare Cecchele a coloro che decisero di affiancarlo a Maria Callas nella celebre Norma parigina.
Durante il mese di agosto si reca a Roma per debuttare, come programmato, in Aida. Il giorno della prima recita (28 luglio) il costume di Radames è vestito da Pier Miranda Ferraro. All’inizio del secondo atto viene annunciato che nonostante le precarie condizioni vocali il tenore avrebbe portato comunque a termine l’opera. Invece la realtà fu diversa: Ferraro rimase afono nel corso del secondo atto ed il maestro Vitale si precipitò in platea per chiedere a Cecchele se fosse stato in grado di continuare l’opera; l’incoscienza giovanile diede al giovane tenore il coraggio di buttarsi nella mischia. Si mise di corsa il costume senza nemmeno il tempo di truccarsi, ed in un attimo era sul palcoscenico. La sua prestazione sarà eccellente sotto tutti i punti di vista e dopo la recita, oltre alle entusiastiche congratulazione, arrivò l’impegno a cantare undici recite anziché le tre previste da contratto. In aggiunta venne anche la proposta a cantare il Don Carlo con la regia di Luchino Visconti per l’inaugurazione della stagione romana 1965-66, con la direzione di Carlo Maria Giulini.
Nel giro di un anno lo sconosciuto merciaio di Galliera Veneta si era trasformato in uno dei tenori emergenti più richiesti. Dal 1964 al 1966 aggiungerà al suo repertorio che inizialmente annoverava solamente La Zolfara, anche Aida, Norma, Don Carlo, Cavalleria Rusticana, La forza del destino e Turandot; impresa non di poco conto!
Nel 1965 canta Norma alla Scala diretto da Gavazzeni con protagonista Leyla Gencer, dopo aver debuttato il ruolo di Pollione nel corso di due recite a Oviedo, effettuate nel settembre dell’anno precedente. Nello stesso anno riprende il ruolo al S.Carlo di Napoli, ma soprattutto viene scritturato dall’Opera di Parigi per cantare in Norma con la Callas quale protagonista dell’opera. Come si può immaginare, il personaggio Callas, ormai a fine carriera, monopolizzò le critiche della stampa internazionale e ben poco spazio venne riservato ai suoi colleghi, tuttavia Cecchele non passò inosservato e piacque soprattutto per la freschezza vocale e la nobile interpretazione.
Ormai la celebrità del tenore di Galliera è in crescita costante e quasi tutti i più celebri teatri del mondo non si lasciano scappare l’occasione di avere questo giovane artista dotato di una vocalità facile, svettante, piena, unita ad una presenza scenica di sicuro effetto, sui loro palcoscenici: Staatsoper di Vienna (Aida, Forza e Tosca), Scala di Milano (Norma, Aida, Cavalleria, Loreley, Turandot), Teatro dell’Opera di Roma (Aida, Wallestein, Don Carlo, Tosca, Turandot, Alzira, Fanciulla) e poi Parigi (Norma), Regio di Parma (Simon Boccanegra), S.Carlo di Napoli (Norma, Aida, Forza, Turandot, Gioconda con R.Tebaldi), Chicago (Cavalleria, Norma), Nizza (Tosca), Palermo (La forza del destino), Amburgo (Aida), Monaco (Simon), Arena di Verona (Forza e Cavalleria), Ginevra (incisione Decca), Montreal (Nabucco), Comunale di Firenze (Norma), Metropolitan di New York (Norma) – Carnegie Hall (Alzira), Philadelphia (Tosca), Teatro Regio di Torino (Forza) – RAI (Turandot); per un totale di 241 recite effettuate nel corso dei primi cinque anni di carriera.
Mi soffermo su questi dettagli perché li reputo molto importanti per far capire cosa costituì il fenomeno emergente Cecchele, nel quinquennio ’64 – ’69 per i maggiori teatri d’opera del mondo.
Nessuna gola avrebbe potuto reggere un simile tour de force, soprattutto cavalcando un repertorio massacrante che ormai comprende opere del primo Verdi, del Verdi maturo, del Puccini lirico e di quello lirico spinto, del verismo più conclamato con Mascagni e Catalani, oltre a Pollione che è diventato un po’ il suo biglietto da visita.
Infatti anche il pregiato organo fonatorio di Cecchele non fa eccezione e nei primi mesi del 1969, causa un’influenza trascurata per tenere fede ai contratti, inizia un periodo di crisi vocale. Continuando a cantare, ignorando l’indisposizione, Cecchele si ritrova a dover combattere una tonsillite che malgrado le cure diventa cronica. La voce non ubbidisce più ai comandi ed il 31 luglio è costretto a farsi togliere le tonsille, naturalmente sospendendo ogni attività professionale. L’operazione riesce perfettamente tuttavia dopo qualche mese, cominciando a vocalizzare, si accorge che la cavità orale è cambiata, è diventata più grande e cantando le sensazioni sono diverse rispetto a prima. Per ritrovare la giusta emissione torna dal maestro Marcello Del Monaco, ma i risultati non arrivavano. E’ per questa ragione che con caparbietà, decide di riprendere a studiare da solo e nota su nota, semitono su semitono, divenendo maestro di se stesso, riesce a ritrovare la strada giusta riacquistando la precedente sicurezza e addirittura guadagnando in volume e spessore vocale, tanto da poter arrivare ad eseguire un’opera massacrante come Otello.
Nel frattempo nell’ambiente lirico si erano sparse voci che davano Cecchele per finito e per questo motivo il rientro avrebbe potuto complicarsi; fortuna vuole che precedentemente aveva firmato con alcuni teatri, dei contratti a lunga scadenza che gli consentirono di rientrare nonostante le ostilità date da un ambiente che perdona poco.
Lo stesso Cecchele in un intervista rilasciata nel 1978 a Lorenzo Allegri e pubblicata dal settimanale Gente racconta:
“Ho commesso molti errori. Non avevo consiglieri né amici veri. Le persone che mi stavano intorno lo facevano per interesse. Ricevevo offerte da tutto il mondo ed accettavo tutto . Una sera cantavo “Norma” e la sera dopo un’opera moderna, sottoponendo le mie corde vocali a sforzi tremendi. Dopo cinque anni di carriera cominciai ad accusare disturbi di gola: ascessi, laringiti, afonia improvvisa. Gli acuti non mi venivano più limpidi e sicuri come una volta. Cominciai anche a fare delle stecche… La situazione peggiorò fino a diventare insostenibile… Non ero più il tenore sicuro dalla voce trionfante. Un giorno dissi a mia moglie: “Basta, torno a fare il contadino. Ho guadagnato abbastanza per farmi una bella casa e son contento. Non accetto di essere scritturato solo perché porto un nome famoso. Riprenderò a cantare quando riuscirò ad avere la voce di una volta. Troncai realmente la carriera. Tutti dicevano che ero pazzo. “Nel mondo della lirica i rientri sono impossibili” mi ripetevano cantanti e direttori d’orchestra. “Se vai fuori dal giro, sei finito”. Non mi interessava. Volevo soltanto ritrovare la mia vera voce”.
Al suo rientro anche coloro i quali avevano già catalogato Cecchele come tenore finito, saranno costretti ad ammettere che si sbagliavano di grosso. A riprova della bontà della strada ritrovata vi è l’elenco di recite cantate con enorme successo nel corso del 1970 e sullo stesso massacrante repertorio, su cui si era assestato prima dell’operazione.
Dal 1970 sino alla metà degli anni ’90 la carriera di Gianfranco Cecchele navigherà a vele spiegate senza incappare più in nessun rallentamento, addirittura aggiungendo al suo repertorio la venticinquesima opera verdiana: quell’Otello che da sempre è l’opera più temuta e allo stesso tempo, desiderata da ogni tenore.
Purtroppo il debutto del ruolo di Otello avvenuto a Bonn nel 1981, passò quasi inosservato in Italia, mentre Von Dieter Gerber, temuto critico del “General Anzeiger” scriveva: “Cecchele è stato presente nel gioco scenico come meglio non avrebbe potuto. Non si è fatto impressionare da questa ardua parte di tenore che ha delle frequenti esplosioni e che alla fine del secondo atto potrebbe condurre al limite delle possibilità. Ma non per lui che raccoglie intelligentemente i suoni, brilla nei timbri acuti e nei colori e tiene testa alla forza vocale del suo rivale Piero Cappuccilli.”
Come spesso accade presso i più importanti teatri italiani, anche in questo caso, è andata sprecata un’importante occasione per poter vedere e ascoltare uno dei più credibili artisti che hanno impersonato il ruolo di Otello negli ultimi venti anni di teatro d’opera.
Cecchele è stato il tenore verdiano per antonomasia.
Con la sua vocalità da lirico pieno, squillante, di bel colore, supportata da una tecnica che gli consente di essere sempre molto “presente” e di infiammarsi scolpendo frasi di notevole impatto drammatico, è riuscito a rendere credibili i ruoli verdiani, tra l’altro ponendo sempre molta attenzione ai segni di espressione presenti nelle partiture del Cigno di Busseto.
Cecchele è un tenore che nell’arco della sua lunga carriera, molto probabilmente ha raccolto più successi di pubblico che di critica. Come è accaduto anche per altre voci importanti anche Cecchele ha dovuto pagare lo scotto di una vocalità che ha ottenebrato la lucidità di alcuni critici, soprattutto in un periodo come il ventennio ’70 – ’80, nel quale lo sport preferito dalla critica di stampo cellettiano sembrava essere divenuto la revisione in negativo di tutti quegli artisti dotati di grandi vocalità e personalità: su tutte quella enorme di Mario Del Monaco.
Fortunatamente questo sport oggi non è più così di moda e si sta tornando a rendere i giusti meriti, a questi artisti, fra i quali figura di buon diritto anche Gianfranco Cecchele.
Ulteriore rammarico ci è dato pensando alla discografia ufficiale di Gianfranco Cecchele che avrebbe dovuto, senza dubbio essere più nutrita. Da appassionato avrei desiderato possedere un ricordo del suo Manrico, di un suo Arrigo dei Vespri, di un appassionato Des Grieux, ovviamente del suo Otello. Fortunatamente ho scoperto che queste opere - centinaia di registrazioni sia audio che video - esistono assieme a un fornitissimo catalogo che racchiudono i 43 anni di carriera del M° Gianfranco Cecchele.
Oggi, nonostante riceva ancora molte proposte di lavoro da parte di molti teatri, dopo quarant’anni passati in continuo frenetico movimento da un capo all’altro del mondo, ha deciso di godersi un po’ più a fondo la sua casa di Galliera Veneta, la sua famiglia e i vecchi amici, rallentando sensibilmente la sua attività.

Danilo Boaretto 

 

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