La piana di Sibari, Contrada Caccianova, Cassano allo Ionio (Cosenza)  

 

di Luisa Di Francesco


La città in cui sono nata è Taranto, la città in cui vivo, in cui ho dato vita alla mia famiglia, in cui è nata mia figlia. Sono tarantina di nascita, ne ho assorbito la cultura, la mentalità; ne ho subito la decadenza nelle conseguenze dell’industrializzazione e nella notorietà impudica sui media per le pesanti ripercussioni sull’ambiente e sulla salute dei suoi abitanti. 

Mi riconosco nella tarantinità, ne apprezzo le tradizioni, i salotti del passeggio serale per le splendide vie d’Aquino e di Palma; ne difendo la grecità nell’acropoli della città vecchia, ne riconosco la storia che da sempre mi ha affascinato. Ogni angolo racconta un frammento di glorioso passato, spesso ignoto ai suoi stessi abitanti. Ne ammiro il mare, le baie, le calette di sabbia fra gli scogli e le distese di rena bianchissima che lambisce lo smeraldo delle sue acque cristalline. Però le tradizioni che sono vive in me sono quelle della terra dei miei genitori: la Calabria. Mi percepisco apulo-calabrese. Appartengono alla terra calabra i ricordi significativi dell’infanzia e dell’adolescenza, i nonni materni e paterni, i parenti che vivono ancora a Cosenza.
I miei genitori, cugini di secondo grado, erano nati nel medesimo paesino aggrappato ad una rocca: Cassano allo Jonio, anzi la dizione corretta è Cassano all’Jonio, tra le stradine che si inerpicano impervie e le donne con le giare sulla crocchia. Mio padre era impiegato in un istituto bancario ed era stato trasferito a Taranto; si erano sposati nel Santuario di Paola, meravigliosa cittadina, poi si erano stabiliti nella “città dei due mari” dove siamo nati io e mio fratello.
I nonni materni avevano lasciato Cassano all’Jonio e si erano ritirati in campagna, nella piana di Sibari, in località “Caccianova”: una grande dimora rurale con il frantoio, gli aranceti, l’orto, gli ulivi secolari.
Così, durante i periodi di vacanza dagli impegni scolastici, con l’automobile colma di bagagli e dei doni della terra di Taranto (mitili, pesce fresco, orecchiette) raggiungevamo il casolare.
La statale 106 ionica che collega e unisce ancora oggi Taranto alla Calabria, corre, per un lungo tratto, lungo la costa, a ridosso della strada ferrata, fra gli arenili di ciottoli levigati o di sassi bianchissimi e, a perdita d’occhio, l’azzurro infinito del mare e le vette innevate. Raccontare la bellezza della terra calabra vuol dire dispiegare lo sguardo tra mare, pianura e monti in un passaggio che movimenta l’animo nell’alternarsi continuo di multiforme varietà.

Contrada Caccianova: il semaforo in mezzo al quadrivio rammentava la strada da imboccare, delimitata da alberi piantati lungo il canale di raccolta che scorreva parallelo ad essa. I fusti lisci e le fronde basse portavano le cicatrici dei fuochi che in estate incendiavano l’erba folta, nata selvaggia intorno alle acque morte. La pietra miliare precedeva di poco l’apparire del casolare; svoltavamo a sinistra e continuavamo per la strada pietrosa disseminata di buche: bisognava abilmente portare la macchina sulle poche zone piane, evitare gli avvallamenti in un gioco tortuoso che strappava imprecazioni a mio padre e che divertiva me e mio fratello intenti a rivelare il percorso possibile, nell’alternarsi di scarti, cadute, riprese.
Poco prima di arrivare, c’era l’ultimo pezzo chiamato “il fosso”: un solco nel quale l’acqua copriva appena il fondo; salto breve per un passo umano, era un ostacolo difficile per la rigidità del corpo metallico che rischiava ogni momento di rovinare parti vitali. L’approccio al “fosso” era accompagnato dalla scoperta dell’entità dello stesso che variava secondo il periodo dell’anno e, quando la profondità era maggiore, bisognava alleggerire il carico scendendo e controllando, con il capo quasi a terra, l’avanzare cauto della vettura.

(Contrada Caccianova-foto Alfredo Dati)

Ridevamo della fragilità dell’auto, della sua ottusa meccanica, della battaglia delle pietre e della terra sulle ruote di gomma e della vittoria del passato, vivo in quel luogo. A piedi continuavamo il cammino fino a quando, scorta la nonna sulla porta, spingendo e urtandoci, correvamo su per la scala ripida per vincere la gara al saluto.

Pareti di stoffa. Uno spazio ampio seguiva l’ultimo gradino: bianco il pavimento, bianche le pareti terminava in un muretto bucato al centro da un tubo sottile. Su quel terrazzo, al sole, si asciugavano bucati, si preparavano cibi, si lavavano panni buttando l’acqua usata nel tubo proteso affinché, gocciolando e disperdendosi nella terra, neanche una parte venisse sprecata. E su quello spiazzo, davanti all’uscio aperto, ho l’unica memoria della figura del bisnonno: un vecchio signore, magro, dal vestito di fustagno, il cappello spiovente sulla fronte, i baffi arricciati e la pipa fumosa tra le labbra. Immagine afferrata e riconosciuta, evanescente nei tratti trasformati dal ricordo rispetto alla fotografia appesa su una parete della casa.
Era questa formata da due sole stanze: nella prima, la volta alta e rotonda era sostenuta da due sbarre di ferro che l’attraversavano da parte a parte; in un angolo il letto matrimoniale, al centro il camino. Al lato della porta si scorgeva, poco elevato rispetto al pavimento, un buco quadrato: quel foro permetteva l’accesso ai gatti e curiosa era l’immagine dei musi che si affacciavano, seguiti dal corpo in un balzo scattante all’interno. La sera la nonna chiudeva l’entrata nel muro con una pietra rotonda e il continuo andirivieni cessava a difesa del sonno degli uomini.
Prima di andare a dormire, formato il cerchio di sedie intorno al camino, lasciavamo che le fiamme catturassero lo sguardo che, libero da concrete figure, seguiva visioni mentali, fluttuanti nel loro prodursi, rincorrersi e perdersi su per le lingue di fuoco.
Interrompeva a volte la quiete lo scoppiettio di un pezzo di brace che, rotolando sul piano del focolare, sollevava scintille luminose colte nel loro scomparire per la cappa scura. In quel momento un ricordo, una domanda, evocati dalla mente assorta e riportati al carattere di realtà dall’evento sonoro, si traducevano in espressioni comunicate agli altri, in dialoghi e brevi racconti per poi nuovamente disperdersi e piano morire negli sguardi ricondotti al limbo del fuoco guizzante.
E se a fatica distoglievo gli occhi da quello spettacolo, il riverbero rosso perdurava sui visi attenti generando mobili forme che modificavano i tratti conosciuti, nelle ombre scavate e nei particolari illuminati.
Quando il sonno vinceva il gioco del fuoco, la nonna si alzavano e, prese le candele, entravano nell’altra stanza. Identica per grandezza a quella d’ingresso, sul pavimento di pietra e malta impastate si scoprivano avvallamenti corretti con strati successivi, ineguali per forma e colore e sotto i piedi, si avvertiva un movimento rotolante, momentaneamente statico.
Addossati ai muri, alcuni letti rivestiti con fodere di cotone; il materasso aveva al centro una fenditura nella quale mia madre infilava il braccio: con gesti precisi e rapidi muoveva l’interno, sollevava un lato, riduceva uno spessore e sotto le sue mani le foglie secche del granturco crepitavano disperdendosi e ammassandosi, piegandosi ubbidienti alla forma richiesta o ribellandosi ad essa nella fuga improvvisa per il varco aperto nella stoffa dal quale spuntavano per un attimo per poi scomparire con un guizzo nel buio del sacco.
Terminava il lavoro, distendeva le lenzuola ruvide e le pesanti coperte rimboccate più volte.
Quando tutto era pronto, quando l’ultimo saluto si era spento, prima di infilarsi nei letti fruscianti, ognuno allungava la mano e tirava la tenda che scorreva sui tubi attaccati al soffitto per circondare con l’ondeggiante parete la propria zona di riposo. E, mentre rannicchiata nel letto, ascoltavo le foglie accompagnare con il suono amico i miei movimenti, mentre lo scorrere successivo degli anelli mi avvertiva del formarsi di un altro vano nella grande stanza, mentre le ombre create dalle candele ingigantivano sullo schermo delle tende distese, io mi addormentavo, protetta, tra le leggere pareti di stoffa.

Dalla piana su cui sorgeva il casolare dei nonni, durante le giornate di vacanza, salivamo al borgo natio dei miei genitori: Cassano all’Jonio, per le visite ai parenti.

Cassano all’Jonio-foto web

L’ultima curva velava il borgo nato su una collina e nascosto poi nella “fossa”, nella valle formata da un fiume divenuto col tempo torrente e poi letto di ghiaia asciutta. Salivamo per i tornanti protetti da un muricciolo fino alla piazza al centro del paese; da qui ci inoltravamo per strade spezzate da gradini invadenti il tracciato, distorte dagli spigoli delle case che si inerpicavano capovolgendo la prospettiva in un gioco di salite e discese Poi, finalmente, ci si fermava e a piedi si proseguiva verso la casa del nonno paterno.
Per quei vicoli passavano donne, uomini; scorreva veloce il loro sguardo ed un saluto reciproco nasceva; un nome veniva detto a mia madre, seguito dal soprannome e subito iniziava tra i miei genitori un dialogo in quel dialetto che spontaneamente riaffiorava nel loro paese così come moriva al ritorno nella nostra città. Una complicità diversa si insinuava tra loro accomunati da vissuti rievocati, ringiovaniti dai luoghi di origine, dalle strade riconosciute, dai volti ricordati.

Foto di Alfano Guido Giuseppe- Torre dell’orologio- Cassano all’Jonio (CS)

La casa del nonno si affacciava in un vico acciottolato che sfociava nella strada principale e, di lato, si trasformava in una gradinata che seguiva curva il versante sinistro del palazzo.
L’immenso portone apriva, con uno scatto metallico, un vano d’entrata che lasciava intravedere un atrio oscuro e sagome di gradini.
La scala, la ripida scala che conduceva alla casa costituiva per me il passaggio tra la riva del mondo abituale e l’approdo al luogo di memorie che erano le stanze dove vivevano i nonni paterni.
L’ingresso era un largo e lungo corridoio buio nel quale schiudeva la porta il soggiorno inondato di sole; era questo una camera vasta, dal pavimento di cemento grigio e, nel centro, si avvertiva l’inclinazione dell’impiantito, maggiore davanti alla ringhiera di ferro sospesa nel vuoto della stradina sottostante. Di fronte a quel balcone, c’era sempre una sedia bassa, dall’intrecciata paglia verde intenso e marrone chiaro, che rimaneva inclinata per effetto della pendenza come a voler protendere, chi si fosse seduto, nello spettacolo scorto: un mare di tetti, tegole e comignoli muoveva il ritmo dello sguardo invitandolo a seguire e scoprire il gioco delle forme che si alzavano, si abbassavano, si intuivano o si stagliavano nette nel compiacente adattarsi alla forma del terreno.
Sul lato destro della stanza, era addossato al muro un divano di tessuto damascato, di fronte il tavolo di noce dalla linea severa addolcita dall’arazzo che lo ricopriva in parte. Un arazzo che narrava una scena di caccia e che rivelava, a seconda del punto da dove lo guardavo, un frammento della sua storia: un cane bianco pezzato che latrava, un cacciatore dagli alti stivali, un riquadro di bosco o il muso di un cavallo, dall’occhio vivo e attento e dalla zampa protesa, che perdeva il corpo nella piega allo spigolo lasciando alla mia fantasia il compito di completare quanto nascosto. A volte mi divertivo a muovere la figura intessuta ed essa prendeva vita: si manifestava per un attimo nella sua interezza per ripiegarsi poi in altro modo, facendo combaciare forme umane e animali.
Su quell’arazzo, mio nonno, seduto di fronte a me, posava spesso le mani. Mani sottili, percorse da vene azzurre in rilievo sulla pelle bianca; la mano destra e le ultime dita dalla posa innaturale che permaneva anche quando le distendeva o quando, impugnata la penna tra l’indice e il medio, si accingeva a scrivere.
Aveva fatto la guerra, anzi tutte e due le grandi guerre e, sulle montagne, si era congelato le dita rimanendone privo dell’uso per le ultime tre.
Sull’arazzo grigio, la mano dalle dita flesse mi affascinava e si integrava quale elemento di esso: così come la tessitura aveva fissato la vitalità di una scena di caccia, così, nella mano candida, le dita rigide e accartocciate avevano fermato la volontà combattiva del nonno.

(Cassano all’Jonio)-Foto web

L’ulivo. Dalla casa del nonno, percorrevamo a ritroso la strada fino all’inizio del paese dove una curva a gomito conduceva ad un viale di ghiaietto bianco. I passi suonavano scricchiolii. La casa del custode era l’ultima e, prima di essa compariva, in parte celato dal declivio del terreno, il grande ulivo.
Adornava solitario il viale e manifestava nel corpo nodoso la lotta sul tempo nel punto in cui un fulmine lo aveva colpito e separato in due pezzi combacianti ma divisi da una striscia di terra scura. L’occhio da lontano non distingueva la ferita nella massa legnosa e rivelava, nell’integrità apparente, tutta la vitalità dell’immenso tronco. Quell’albero millenario, prima che il fulmine e il tempo ne limassero la superficie, aveva offerto a mio padre e ai suoi amici occasione per un gioco ricorrente: misurarne l’ampiezza con il corpo. Appoggiata la guancia, aprivano le braccia a croce sul legno, tendevano le mani per toccare i compagni distesi nello stesso modo fino a circondare il fusto. Così allacciati, aderito il corpo, premuto il viso, rimanevano fermi uniti nel cerchio, fusi all’ulivo, gli occhi rivolti alle foglie mosse dal vento, il respiro rallentato dall’odore pungente di resina.
Giunti alla casa in fondo al viale, entravamo nell’ingresso dove, riposti in secchi azzurri e immersi nell’acqua, attendevano mazzi di garofani bianchi o dai petali viola. Si avvertiva un sentore dolce e lento, penetrato nelle pareti e nei pochi mobili, divenuto preludio e simbolo del luogo custodito dai padroni della casa.
I fiori comprati venivano affidati a me, alla più piccola e, con quel profumo tra le mani e l’odore molle di cera nelle narici, varcavamo la porta che si inquadrava nel cancello di ferro. Il silenzio, interrotto dal repentino ronzio di qualche ape, svelava la bellezza e la dolcezza del sentiero che, discendendo, scopriva il verde intenso degli alberi, le macchie vive dei cespugli sulle costruzioni basse e sui cancelli chiusi.
Non imboccavamo il sentiero, ma piegavamo subito per entrare nella parte più antica dove si trovava una stanza illuminata da una vetrata spaccata al centro, posta sul punto più alto della parete. Lo sguardo scopriva segni sbiaditi e nomi leggibili a mano a mano che la distanza diminuiva e forme diverse: alcune rettangolari, altre quadrate; spazi vuoti e polverosi, fiori dal capo piegato e lumini, alti e bassi, accesi o spenti sul pavimento, non destinati solo al nome scritto vicino ma a ricordo di coloro che l’altezza impediva di raggiungere.
Sul lato sinistro, al secondo posto partendo dal basso, c’era una lapide striata di bianco con ai lati due portafiori di ferro scuro, al centro due date e un nome. Quella lastra porta il mio nome: il nome della nonna, morta quando mio padre aveva sei anni.
Ferma davanti a quel nome, lo guardavo: fissava la tomba per qualche istante, sollevava la mano toccando lieve il marmo freddo con la punta delle dita che riportava alle labbra in un gesto ritrovato. Non abbiamo mai parlato, Toglieva i fiori secchi, sfilava dalle mie mani i garofani scegliendone alcuni e li infilava nei contenitori modificandone la posizione con gesti bruschi. Poi sollevava ai portafiori il vaso di terracotta pieno di acqua che era poggiato in un angolo del muro, dimenticato o lasciato lì per pietosa utilità.
Era morta giovanissima di una malattia allora incurabile; poco sapevo e so di lei: qualche episodio antico rubato alla memoria degli adulti, frammenti di vita legati ad un figlio troppo piccolo per poter ricordare. Nessuna immagine, nessuna fotografia avevo ritrovato nella casa paterna, distrutte dal tempo o forse dal capriccio di un momento della nonna che aveva, senza saperlo, reso vano il mio desiderio di conoscerla.
Dicono che rifletto nel nome e nel carattere la sua personalità sensibile e dolce, mutevole e repentina nell’umore. Forse le somiglio anche nel volto che, in una foto recente, ondulati i capelli in un movimento antiquato, ha suscitato nella mente di coloro che l’amarono l’emozione di un ricordo divenuto reale.
Di lei non mi rimane che un nome, scritto con lettere di metallo lucente tra due date e i portafiori arrugginiti e il desiderio di un viso sconosciuto e perduto, rubato dalla lastra di marmo grigio.
Di tutto questo mondo oggi non restano che ricordi: i nonni non ci sono più, il casolare di Caccianova è chiuso, il cancello sbarrato, “il fosso” è solo un avvallo della strada; al paese la casa del nonno appartiene ad altri, il vecchio ulivo è stato abbattuto.

Sono solo ricordi, comignoli spenti, camini vuoti, case disabitate, camere senza vista sul mondo reale, ma io ne lascio, tenace, le porte socchiuse.

Foto personale-Luisa Di Francesco-Contrada Caccianova- Sibari (CS)

 

Info Autore
LUISA DI FRANCESCO
Author: LUISA DI FRANCESCO
Biografia:
.Nata a Taranto, si è laureata presso l’Università agli Studi di Bari, in Pedagogia Facoltà di Magistero con 110 e lode. È docente dal 1983 e attualmente insegna Materie letterarie in un Istituto professionale della sua città. È socio onorario dell’A.S.A.S. “Associazione Siciliana Arte e Scienza di Messina” e dell’Associazione culturale “Focus” di Taranto. Ha manifestato, sin da piccola, uno spiccato interesse per la lettura: dai testi di narrativa per ragazzi ai grandi Autori del panorama letterario italiano ed europeo dell’Ottocento e Novecento. Amante della letteratura, della poesia e dell’arte in tutte le sue forme, scrive racconti e testi poetici affidando al “segno” i moti del suo animo. Ha pubblicato due raccolte poetiche: “Grammi di vero”, VJ Edizioni, Milano,dicembre 2020 e “Il vaso di Pandora”, Pegasus Edition, febbraio 2021. Ha partecipato a diversi concorsi letterari nazionali ed internazionali ricevendo premi, menzioni e riconoscimenti.Numerose sue poesie e racconti sono stati inclusi in antologie dedicate.
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