di Monica Vendrame
Chi cammina sugli altopiani iblei, nella Sicilia sud-orientale, tra i lecci e i muretti a secco, a un certo punto inciampa in strane cavità di pietra.
Non sono pozzi né vecchie cisterne: sono le neviere, buche profonde rivestite di massi scuri. Oggi sembrano ruderi dimenticati, coperti di muschio, ma un tempo custodivano neve. Sì, proprio neve.
Quando d’inverno le montagne si imbiancavano, squadre di uomini con pale e mani intirizzite raccoglievano quella neve e la stipavano dentro le fosse, pressata e coperta di foglie. Restava lì mesi interi, fino all’estate. Poi, al momento giusto, veniva tirata fuori, tagliata a blocchi e caricata in sacchi di iuta sui muli. I “nevaroli” viaggiavano di notte. Il tragitto era lento, faticoso: chilometri tra mulattiere e dirupi, con il timore che il calore corrompesse il carico. Il ghiaccio scendeva a valle e arrivava fino a Noto, Siracusa, perfino Catania.
In città era ricchezza pura: serviva a conservare il cibo, a rinfrescare le bevande, a preparare i primi sorbetti agli agrumi. Un lusso che oggi diamo per scontato, allora frutto di fatica e ingegno.
Oggi le neviere si incontrano lungo i sentieri come segni muti di un paesaggio che non c’è più Se ti fermi accanto a quelle pietre coperte di muschio, sembra non esserci niente. Solo silenzio. Poi, quasi senza accorgertene, l’immaginazione lavora: il respiro affannato dei muli, il cigolio dei carretti, le pale che scavano nella neve.
Un’eredità silenziosa, rimasta tra i monti.

