di Massimo Reina
Ventitré maggio. Puntuale come un orologio rotto, che due volte al giorno ci azzecca, lo Stato si veste di lutto. Si tira a lucido, si commuove, si indigna. Sfila. Fa il pieno di parole. Alcune vere, altre talmente riciclate da puzzare di naftalina retorica. Falcone. Borsellino. Morvillo. Gli uomini della scorta. I fiori. Le corone. Gli slogan. E poi? Poi, come ogni anno, torniamo ad accarezzare il cratere di Capaci con la pala dell’oblio.
Perché lo Stato che oggi piange, domani archivia. E magari, dopodomani, promuove qualcuno. C’è sempre un sottosegretario da salvare, un “non luogo a procedere” da costruire come si costruisce una diga per fermare la verità. La mafia è cambiata, ci dicono. Peccato che a cambiare, troppo spesso, sia stato anche lo Stato. Da parte civile a complice. Da vittima a spettatore pagato per distogliere lo sguardo.
Falcone, per anni, lo hanno lasciato solo. Lo insultavano, lo accusavano, lo trasferivano. Quando ha provato a spiegare che la mafia non era folklore ma sistema, si sono messi le mani sulle orecchie. E adesso? Adesso lo usano come santino da intitolare un’aula, mentre nelle aule vere si depotenziava l’abuso d’ufficio, si provava a silenziare le intercettazioni, si accoltellava il reato di concorso esterno. I peggiori nemici di Falcone oggi lo ricordano con la voce rotta. Ma è il tono a essere rotto, non la coscienza.
E mentre a Capaci sventolano le bandiere, in Parlamento sventolano gli inciuci. Mentre i ragazzi leggono poesie, i mafiosi leggono sentenze favorevoli. Le commemorazioni sono diventate anestetici collettivi. Ci fanno piangere per non farci pensare. Perché pensare farebbe male. Farebbe domande. Come questa: chi ha davvero tradito Giovanni Falcone? I Riina e i Provenzano, certo. Ma anche i colletti bianchi, i magistrati col cerino in mano, i politici col telecomando del CSM.
Trentadue anni dopo, siamo ancora qui. A parlare di mafia come se fosse una leggenda passata. Come se fosse finita con le bombe. Ma la mafia non finisce mai. Si evolve, si traveste, si siede ai tavoli buoni. E noi, ogni 23 maggio, fingiamo di non saperlo. Per rispetto. O forse per convenienza.
Perché, come scriveva Sciascia, “la memoria è un dovere. Ma anche un rischio, se la si imbalsama troppo bene”.