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di Anna Maria Stefanini

Viene prima la commedia all’italiana o viene prima Saturnino (in arte “Nino”) Manfredi? Enigma non soltanto irrisolvibile ma soprattutto mal posto come lo è l’antica questione dell’uovo e della gallina. Tuttavia utile come domanda retorica per mettere subito bene a fuoco la natura del rapporto di Nino Manfredi con il cinema. 

Ormai tutti hanno un posto nelle enciclopedie e il numero delle pagine è un parametro dell’importanza del personaggio; nel caso di Manfredi lo spazio non soltanto è enorme ma il format enciclopedico non è quello più adatto a definire lo spessore del personaggio.

Le enciclopedie, in obbedienza al loro modello informativo, procedono per liste, citando benemerenze e vicende biografiche; nel caso di Nino sono costrette ad usare la lista delle liste: quella dei film, degli spettacoli teatrali, dei premi, delle professioni (attore, regista, sceneggiatore, cantante, doppiatore) etc.
C’è persino la lista delle incisioni musicali. 


Quello che le enciclopedie non raccontano è che Nino Manfredi è stato uno specchio; lo specchio dove tutti abbiamo la possibilità di riconoscerci, come siamo, come crediamo di essere, come vorremmo essere e come dovremmo essere. Dietro quel “noi” ovviamente c’è l’italiano. La commedia è quel modo leggero di raccontare la vita e interpretare e far vedere le molteplici identità dell’uomo e Manfredi è stato uno dei più grandi ritrattisti dell’italiano emerso malconcio dal dopoguerra, dirottato immediatamente dentro le pieghe e le piaghe del boom economico stile anni ’60 e difficile da mantenere, declinato poi nelle convulsioni di fine secolo, quando hanno cominciato a succedersi le “repubbliche”. Le fonti più accreditate attestano che attualmente siamo alla 3^ repubblica; altre già alla 4^.

Manfredi è stato attore dalle cento maschere; le ha interpretate tutte: dal ciociaro di Ceccano a quella dell’emigrato: in Svizzera, in Inghilterra e persino emigrato interno in eterno clandestino viaggio sul treno (della vita) messo in scena dal regista Nanni Loy (“Café express”); una delle sue maggiori interpretazioni in assoluto. Ma è passato anche per i panni del docile boss della Napoli di San Gennaro e quelli del fiabesco Geppetto. La risorsa probabilmente più grande dell’attore Manfredi è stata la capacità di combinare in modo assolutamente originale l’arte e le doti espressive del “caratterista” con un approccio (diciamo) filosofico, sociologico e letterario ai personaggi, cui è consegnato il compito raccontare “l’idea narrante” del film. Come in “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola o in “Per grazia ricevuta”, interamente scritto, diretto e interpretato da lui. L’attore è colui che presta la propria macchina umana alle intenzioni narrative del film; ma pochi lo hanno fatto come Manfredi. In certi casi hai l’impressione che sono gli autori ad aver prestato la macchina filmica all’attore. 


Nino nasce a Castro dei Volsci, un piccolo comune del frusinate, il 22 marzo 1921 ma all’età della prima adolescenza si trasferisce con la famiglia a Roma dove il padre, agente di pubblica sicurezza, venne trasferito.

L’itinerario artistico di Nino Manfredi comincia a causa di un brutto guaio: nel 1937, all’età di 16 anni, si ammala gravemente di tubercolosi, finendo in ospedale e poi in sanatorio. Qui impara a suonare e rimane affascinato da una rappresentazione teatrale della compagnia di Vittorio De Sica. È da quel casuale incontro che nasce la sua passione per la professione dell’attore.

La sua gioventù si divise fra lo studio (per accontentare i genitori) e il teatro amatoriale; dopo la caduta del fascismo e l’armistizio dell’8 settembre 1943, per sottrarsi agli arruolamenti forzati, Nino si rifugia per un anno in montagna. L’anno successivo ritorna a Roma, riprende l’università ma contemporaneamente si iscrive all’Accademia nazionale d’arte drammatica. Nel 1945 si laurea in giurisprudenza (professione che non eserciterà mai) e nel ’47 si diploma all’accademia.
I primi esordi sul palcoscenico furono soltanto teatrali, partecipando a un ricco numero di importanti rappresentazioni, con la regia dei maggiori nomi della prosa italiana: Maltagliati-Gassman, Strehler, Eduardo De Filippo etc.

Nel 1951, a trent’anni, Nino dà una grossa sterzata alla propria biografia artistica: insieme a Paolo Ferrari e Gianni Bonagura formò un trio che ebbe un discreto successo alla radio, nella rivista e nella commedia musicale. L’apice del successo di questa esperienza fu il “Rugantino” di Garinei e Giovannini; per i due autori lavorò insieme a Delia Scala, Aldo Fabrizi e Bice Valori.

Il passaggio alla televisione e al cinema fu inevitabile, dove collezionò un numero incredibile di film; un elenco che solo le enciclopedie possono permettersi di pubblicare. 

Nella sua lunga carriera figurano persino 22 dischi singoli.

Questi i principali riconoscimenti ricevuti: nove premiazioni al David di Donatello, otto nastri d’argento (dal 2009 questo importante riconoscimento include anche il “premio nastro d’argento Nino Manfredi”), quattro Globi d’oro, tre Grolle d’oro. Il Montecarlo Film Festival gli ha conferito il titolo di “attore più eclettico dell’anno”.

Nino ci lascia, all’età di 83 anni, a Roma, il 4 giugno 2004.

Domani, lunedì 22, la RAI, in occasione del centenario dalla nascita, gli dedica il docu-film “Uno, nessuno, cento Nino”; scritto e diretto dal figlio Luca Manfredi.

A Nì! Sei mejo der caffè: più lo manni giù più ti tira su.