di Monica Vendrame
Il Giro d’Italia 2025 è partito lo scorso 9 maggio da Durrës, in Albania, e si concluderà il 1° giugno a Roma. Siamo alla vigilia della decima tappa: una cronometro individuale di 28,6 km da Lucca a Pisa, in programma per martedì 20 maggio. Un percorso suggestivo, certo, ma che ha lasciato l’amaro in bocca, soprattutto al Sud.
Dopo le prime tappe in Puglia, Basilicata e Campania, la corsa ha completamente abbandonato il Mezzogiorno, escludendo Calabria, Sicilia e Sardegna. Un “taglio” che ha acceso i riflettori — e le polemiche — su una scelta tanto tecnica quanto simbolica.
È evidente che si tratti di una gara a tappe con logiche complesse — logistiche, economiche, mediatiche. Proprio per questo, però, sorprende che in un Paese ancora fragile dal punto di vista dell’unità territoriale, si scelga di sacrificare sistematicamente il Sud, che da tempo chiede visibilità, investimenti e attenzione.
Non è solo una questione sportiva. Il Giro, come Sanremo, è un rituale collettivo, una “cartolina in movimento” dell’Italia intera. È promozione turistica, rilancio economico, emozione popolare. Escludere vaste aree del Sud significa anche negare loro l’accesso a tutto questo. A cosa serve una vetrina se alcuni territori restano fuori dalla vetrina?
Il paradosso è evidente: si attraversa l’Adriatico per un’apertura internazionale, e poi si scarta l’interno del Meridione, con le sue montagne, i borghi, i santuari, le strade da riscattare. La Calabria, ad esempio, è assente dal 2020. Eppure è una terra di passione ciclistica, con paesaggi mozzafiato e una viabilità migliorata negli ultimi anni. Possibile che non si sia potuto immaginare nemmeno una tappa verso Reggio o sull’Aspromonte? Molti corridori del passato, pur non essendo meridionali, ricordano con emozione quelle tappe “vere”, dure e piene di umanità.
Forse la risposta sta nelle scelte strategiche: chi investe, decide. L’Albania ha stanziato fondi per ospitare la partenza. Le Regioni italiane, in tempi di tagli e ristrettezze, non sempre possono — o vogliono — fare lo stesso. E il Sud, ancora una volta, paga il prezzo più alto.
L’organizzazione ha motivato la partenza in Albania con l’obiettivo di internazionalizzare la corsa e rafforzare i legami culturali con i Balcani. Ma per molti tifosi resta un paradosso: si guarda all’estero mentre si dimentica una parte fondamentale del proprio Paese.
Nel frattempo, le istituzioni locali del Sud esprimono “rammarico” e “incomprensione”. In una nota della Regione Basilicata si legge: “Non si può parlare di Giro d’Italia senza passare per il Sud. Serve un dialogo costante e una programmazione che valorizzi davvero tutto il territorio.”
Alcuni sindaci hanno già presentato proposte concrete per l’edizione 2026: arrivi sul Pollino, cronoscalate sull’Etna, passaggi nei borghi Unesco della Lucania.
Il Giro d’Italia non è una corsa qualunque. È identità, memoria, rito. Lo sapevano bene Bartali e Coppi, che univano Nord e Sud in una sola narrazione. Lo sapevano i grandi cronisti sportivi, da Brera a Zavoli. Oggi, invece, il rischio è che il Giro diventi un affare per pochi, tagliato su misura per zone già ricche e visibili.
Non è una polemica sterile, ma un appello. Il tricolore ha tre colori, e il rosa del Giro dovrebbe bagnare tutte le strade d’Italia, anche quelle più lontane dai riflettori.
Perché se lo sport perde la sua funzione di legame nazionale, resta solo spettacolo. E il Paese, ancora una volta, si divide.