di Monica Vendrame
PORDENONE – È bastata un’ordinazione al bancone per scatenare una lite tra comitive e sfiorare la rissa. Tutto è accaduto lunedì 16 giugno in un bar del centro, quando un cliente ha semplicemente chiesto un Negroni, il celebre cocktail italiano. Nulla di strano, se non fosse che alcuni giovani stranieri seduti a un tavolo poco distante hanno interpretato quel nome come offensivo e razzista.
La tensione è salita in pochi minuti: parole pesanti, sguardi ostili, e un clima incandescente che ha richiesto l’intervento della barista, Graziella Piccolo, e di alcuni avventori, per evitare che lo scontro degenerasse fisicamente. Due ragazze hanno provato invano a calmare gli animi, ma solo la prontezza dei presenti ha riportato la calma.
Al centro del malinteso: la parola “Negroni”. Ma basta poco per chiarire che si tratta di un cognome italiano, e per giunta illustre. Il drink nasce a Firenze tra il 1919 e il 1920 per volontà del conte Camillo Negroni, che amava farsi servire un Americano corretto con gin. Da lì, il successo internazionale e la consacrazione del Negroni come icona dell’aperitivo italiano.
Eppure, nel clima odierno in cui ogni parola può diventare terreno minato, anche un cognome storico può trasformarsi in potenziale bersaglio. Il caso ha riacceso il dibattito sulla sensibilità linguistica, il politicamente corretto e i possibili eccessi del cosiddetto “woke thinking”.
È legittimo che la società rifletta sul linguaggio e sulle sue implicazioni, ma quando la storia viene ignorata in favore di un’interpretazione emotiva e decontestualizzata, il rischio è quello di scivolare nel ridicolo o, peggio, nel conflitto. Il Negroni non è un insulto, è un pezzo di cultura italiana.
L’episodio di Pordenone mostra quanto possa diventare fragile la convivenza, quando il significato delle parole viene filtrato solo attraverso la percezione soggettiva. Se anche i cognomi iniziano a offendere, dobbiamo chiederci: stiamo proteggendo davvero la sensibilità altrui, o stiamo perdendo il senso delle proporzioni?
La cultura dell’inclusività è importante. Ma non deve diventare una scusa per ignorare la storia, la realtà, o la buona fede. Perché un cocktail – per quanto forte – non dovrebbe mai ubriacare il buon senso.