di Massimo Reina
Martina Carbonaro aveva quattordici anni. Una vita intera davanti. Dei sogni, forse piccoli, forse grandi. Un lavoro, probabilmente precario. Amici. Una famiglia. Un futuro. Poi è arrivato lui: l’uomo che “diceva di amarla”. Quello che, come sempre, aveva “dei problemi”. Che magari era già stato “segnalato”. Che forse lei aveva “denunciato” e che, come al solito, nessuno aveva ascoltato.
E così Martina è morta.
Come Giulia.
Come Alice.
Come Rossella.
Come Elisa.
Come decine di altre donne uccise da uomini che le volevano “solo per sé”.
È l’ennesimo femminicidio, sì. Ma non è solo un delitto. È un bollettino di guerra. Una strage silenziosa, metodica, quotidiana. Una carneficina che non conosce soste. Una contabilità macabra che sale, sale, sale. E nessuno, nessuno, fa nulla.
Ci sono i comunicati stampa, certo. Gli appelli del Presidente della Repubblica, le lacrime finte dei talk show, i “mai più” dei ministri. Si commuove perfino chi ha votato i tagli ai centri antiviolenza. Si indignano quelli che, al governo o all’opposizione, non hanno fatto un accidente se non l’ennesima campagna social con l’hashtag #StopViolenza.
La verità è una e una sola: in Italia, ormai, si può essere uccise perché si è donne. E nessuno pagherà per averlo permesso.
Non si tratta di patriarcato, come qualche femminista della domenica tutta woke e paraculaggine vorrebbe far credere. “Solo” il tipico menefreghismo all’italiana, della serie “rimandiamo a domani” una possibile soluzione “che oggi non ho tempo e voglia”. E quel “domani” non arriva mai.
Destra e sinistra? Ugualmente inadempienti.
Meloni, che si straccia le vesti da “madre e donna”, ma poi si ferma sul più bello.
Schlein, che a parole è una paladina, ma nei fatti resta un fantasma nei palazzi che contano.
Nessuno che imponga l’educazione affettiva obbligatoria nelle scuole.
Nessuno che investa seriamente in case rifugio, percorsi di protezione, formazione delle forze dell’ordine, magistrati e psicologi.
Solo propaganda. Solo parole. Solo “Giornate contro”.
E nel frattempo, le “Martine” continuano a morire. Come pecore sgozzate.
Solo che non siamo in un romanzo, né in un film.
Siamo in un paese dove si fa politica con i like e si muore nel silenzio.
Un paese dove ogni donna è potenzialmente un bersaglio, e ogni assassino ha già pronto l’alibi: “era geloso, era depresso, era disturbato”.
No. Era un assassino. Punto.
Basta retorica. Basta dichiarazioni di circostanza.
Servono leggi, soldi, mezzi, persone. Ora.
E servirebbe anche una stampa che smettesse di chiamarli “delitti passionali” o “tragedie familiari”. Non sono tragedie. Sono omicidi. Sono esecuzioni.
Martina è morta. L’Italia è in lutto? No.
L’Italia è in coma etico.
E questa politica, di destra e di sinistra, è complice. Per omissione.
E anche noi, ogni volta che ci indigniamo per un giorno e poi voltiamo pagina, lo siamo. Per vigliaccheria.