di Monica Vendrame
L’attacco americano contro tre presunti siti nucleari iraniani è stato definito da Donald Trump “spettacolare” e “di grande successo”. Secondo le sue parole, le strutture sarebbero state completamente distrutte, neutralizzando impianti dove, a detta dell’Occidente, si arricchiva uranio fino al 60% — ben oltre la soglia consentita per usi civili.
Ma a poche ore dall’operazione, la realtà comincia a incrinarsi. Il dettaglio che disturba la narrazione ufficiale è semplice quanto dirompente: nessuna traccia di radiazioni. L’AIEA, Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, non ha rilevato alcuna contaminazione. Zero fuoriuscite. Zero allarmi. Zero conferme.
E allora, delle due l’una: o i missili non hanno colpito come si voleva far credere, oppure non c’era niente da colpire.
Chiunque abbia nozioni minime di energia nucleare sa che un impianto attivo, se colpito, sprigiona radioattività. Anche un semplice incidente in una centrale a uso civile, con uranio al 3-4%, può causare danni permanenti. Figuriamoci un impianto che lavora al 60%.
Eppure qui tutto tace.
Un silenzio sospetto, come sospetta è l’immagine satellitare circolata nelle stesse ore, riportata dal canale israeliano Abu Ali Express, che mostra un lungo convoglio in uscita dal sito di Fordow, proprio due giorni prima dell’attacco. Una coincidenza? O una prova che gli iraniani hanno trasferito in anticipo il materiale sensibile?
Difficile pensare al caso. Più logico supporre che l’Iran sapesse cosa stava per succedere. Troppo puntuale il “trasloco”, troppo pulito il bombardamento, troppo accomodanti le reazioni. E allora la domanda si fa più grande: gli Stati Uniti hanno colpito davvero per colpire? O hanno solo recitato un copione geopolitico, utile a mostrare i muscoli davanti all’opinione pubblica, ma perfettamente innocuo nella sostanza?
Perché se sapevano che quei siti erano già stati svuotati — e hanno colpito lo stesso — l’intero attacco diventa una farsa diplomatica, una manovra scenica in stile Hollywood.
Se invece non lo sapevano, allora l’operazione è stata un fallimento su tutta la linea: niente obiettivi neutralizzati, niente deterrenza, niente risultati.
Una superpotenza in cerca di applausi
Siamo ormai abituati alla guerra come forma di comunicazione. Ma mai come oggi la distanza tra dichiarazioni ufficiali e realtà tecnica è apparsa così netta. La “guerra preventiva” si è trasformata in guerra dimostrativa, dove conta più l’annuncio che l’efficacia.
Un attacco nucleare senza radiazioni è come un film d’azione senza vittime: spettacolare, sì — ma finto.
La verità — sempre ammesso che qualcuno abbia ancora interesse a cercarla — potrebbe trovarsi nel mezzo: un attacco annunciato più che pianificato, un bersaglio forse già evacuato, un messaggio pensato per chi guarda, non per chi subisce.
E se così fosse, ci troveremmo di fronte all’ennesimo teatro geopolitico, dove a contare non è la distruzione effettiva ma la narrazione della distruzione.
Una guerra fatta di immagini, più che di impatti. Di dichiarazioni, più che di detonazioni.
E il rischio più grave non è che qualcuno abbia mentito, ma che nessuno abbia avuto bisogno della verità per credere a tutto.