Nel silenzio dopo il boato, restano la polvere e la solitudine di un Paese smarrito.
Dove la disperazione diventa miccia, e la pietà arriva sempre tardi
di Monica Vendrame
Oggi l’Italia si è svegliata con un boato, e poi con un silenzio che sembra non finire.
A Castel d’Azzano, nel Veronese, tre carabinieri — Marco Piffari, Valerio Daprà e Davide Bernardello — sono morti durante un accesso di verifica: si temeva la presenza di esplosivi e bottiglie molotov sul tetto del casolare. Non un normale sgombero, ma un controllo di sicurezza. Invece no: si è trasformato in una strage. Venticinque feriti, tra militari, vigili del fuoco e civili. È una ferita che attraversa l’Arma, ma anche tutto il Paese.
Il comune ha proclamato il lutto cittadino, le bandiere sono a mezz’asta, le parole ufficiali si rincorrono tra Roma e Verona. Ma il dolore non ha bisogno di simboli: basta guardare quelle macerie per capire che non c’è nulla da celebrare, solo da comprendere.
I fratelli Ramponi, accusati dell’esplosione, vivevano in quella casa come in una caverna: senza corrente, senza gas, sopravvivendo solo grazie al latte delle loro mucche. Attorno a loro, il tempo si era fermato. Anni di cause, minacce, rancori, isolamento. “Vivevano come cavernicoli”, ha raccontato un vicino all’Agi. In quella oscurità — fisica e mentale — è cresciuto un dolore muto, diventato odio, poi follia.
Ma la follia non spiega tutto. Perché quella casa non è crollata solo per il gas o le molotov: è crollata per l’assenza. L’assenza dello Stato, delle istituzioni, di un sostegno vero prima che la disperazione diventasse miccia. Tutti sapevano che i fratelli erano instabili, che avevano già minacciato di darsi fuoco, che vivevano ai margini della realtà. Eppure, gli interventi si erano moltiplicati senza mai risolvere nulla: segnalazioni, sopralluoghi, rinvii. Una presenza amministrativa costante ma senza ascolto, fino al giorno in cui il tempo è scaduto.
La follia, quando non viene ascoltata, diventa sistema. E il sistema, quando abdica alla cura, produce tragedie. Castel d’Azzano oggi non è solo un luogo di morte, ma il simbolo di un’Italia che lascia soli i suoi cittadini più fragili, fino a renderli pericolosi per sé stessi e per gli altri.
Passato lo shock, resta la domanda: quanti altri Castel d’Azzano ci sono sparsi per l’Italia? Luoghi dove il tempo si è fermato, dove la povertà non si vede ma corrode tutto, dove la disperazione diventa abitudine. I fratelli Ramponi sono il volto estremo di un’Italia invisibile, fatta di famiglie schiacciate dai debiti, dalle cause civili, dall’indifferenza.
Quando lo Stato arriva, spesso lo fa solo con gli ufficiali giudiziari, non con gli assistenti sociali. E così la rabbia, la paura, la malattia mentale si trasformano in micce. Non c’è giustificazione, ma c’è una responsabilità: quella di una società che non sa più prevenire, ma solo piangere.
Tre carabinieri hanno perso la vita facendo ciò che dovrebbe essere sicuro: un accesso, un controllo, un gesto di servizio. Ma dietro quei muri c’era il fallimento collettivo di tutti noi. L’Italia che oggi si ferma per il lutto cittadino dovrebbe farlo non solo per onorare i suoi caduti, ma per chiedersi perché non ha saputo fermare questa discesa nel buio.
Le sirene, i funerali, le bandiere a mezz’asta non bastano. Servono occhi aperti, memoria lunga e il coraggio di guardare dove non si vuole guardare: nelle case fredde, negli occhi di chi non parla più. Perché ogni volta che smettiamo di vedere chi vive al margine, la loro disperazione torna. E quando torna, non bussa mai piano.

