di Massimo Reina
Apriti cielo: Beatrice Venezi alla Fenice.
La direttrice d’orchestra “non allineata”, quella che osa essere donna, colta, elegante e pure di destra. Roba che fa venire l’orticaria ai sacerdoti del pensiero unico, quelli con il tesserino ZTL e la tessera Arci incollata all’anima.
È bastato un nome per scatenare l’inferno dei soliti radical chic che infestano i salotti culturali italiani come zanzare in un’estate eterna. Centoquaranta “habitué”, dicono, pronti a disdire l’abbonamento alla Fenice in segno di protesta. Un gesto eroico, se non fosse ridicolo. Centoquaranta su duemila e trecento abbonati: una rivoluzione da foyer con spritz in mano e indignazione prêt-à-porter.
Scrivono lettere, firmano appelli, si commuovono davanti a se stessi.
Sono gli stessi che per anni hanno predicato libertà, inclusione, democrazia, salvo poi trasformarsi nei peggiori talebani del pensiero quando qualcuno osa non pensarla come loro. “Non vogliamo la Venezi perché è di destra, perché è bella, perché parla chiaro.” Tradotto: non vogliamo nessuno che ci metta di fronte alla nostra ipocrisia.
La sinistra culturale, quella delle librerie di quartiere e dei premi letterari autoprodotti, ha perso il senso del ridicolo. Ormai si muove per riflesso pavloviano: se non appartieni al loro club, sei automaticamente fascista, sessista, sovranista o qualunque altro -ista inventato nella settimana.
Puoi chiamarti Leonardo da Vinci, Mozart o Einstein: se non applaudi la loro mediocrità, ti cancellano come un tweet scomodo.
È curioso vedere chi predica il pluralismo reagire come un inquisitore del Quattrocento davanti a una donna che dirige un’orchestra. La stessa orchestra, peraltro, che applaudiva in piedi quando sul podio c’erano i benedetti dai talk show, i direttori col pugno chiuso o la spilletta arcobaleno ben in vista. Ma guai se qualcuno osa infrangere la liturgia dell’omologazione.
Beatrice Venezi non è colpevole di essere incompetente, ma di non essere ipocrita. Non si vergogna di dire quello che pensa. E questo, nell’Italia del conformismo culturale, è un peccato mortale.
Perché se sei donna e conservatrice, non sei emancipata: sei un problema.
Se sei bella, sei “strumentalizzata dal patriarcato”.
E se osi avere talento, allora diventi una minaccia per chi il talento non l’ha mai avuto, ma lo sostituisce con un editoriale indignato su Repubblica.
I veri talebani non stanno a Kabul. Stanno nei teatri italiani, nelle redazioni, nei circoli dove l’intelligenza è morta di autoreferenzialità.
Gente che crede di essere l’avanguardia morale del Paese, ma vive di odio verso chiunque non parli la loro lingua di legno.
Si sono costruiti una torre d’avorio, e da lì lanciano anatemi contro chiunque non abbia la tessera giusta, il pronome giusto, o la postura giusta davanti al politicamente corretto.
E così, anche la musica diventa un campo di battaglia ideologica.
Un teatro d’opera, che dovrebbe essere un luogo di bellezza e libertà, si trasforma in un tribunale dell’ortodossia dove si misura il grado di allineamento al dogma progressista.
Il risultato? Un deserto culturale dove non si può più discutere, ma solo conformarsi.
Beatrice Venezi non è un problema. È lo specchio di un Paese che ha paura della libertà di pensiero. E che, pur di non ammettere la propria ipocrisia, preferisce insultare, sminuire, e disdire abbonamenti come bambini capricciosi. Alla fine, i 140 firmatari resteranno a casa, indignati e felici, a dirsi quanto sono intelligenti. E i sindacati dei musicisti che addirittura hanno indetto uno sciopero contro la Venezi, possono andarsi a loro volta licenziarsi, che di maestri bravi e desiderosi di lavorare è piena l'Italia. Gli altri 2.300 abbonati continueranno ad andare a teatro, ad ascoltare musica, e magari — finalmente — a respirare aria nuova. Perché la vera rivoluzione, oggi, non è essere “di sinistra” o “di destra”.
È avere il coraggio di non essere conformisti e non avere pregiudizi.

