di Massimo Reina
Inviato di guerra - Giornalisti Senza Frontiere
Un confine oltre il quale la guerra smette di essere guerra e diventa macelleria.
Quel limite è l’assassinio deliberato di chi racconta.
Uccidere i giornalisti.
Non in uno scontro a fuoco. Non per errore. Ma con metodo. Con premeditazione.
Succede ogni giorno a Gaza. E non si tratta più di ipotesi o insinuazioni. È tutto documentato. Droni che seguono, inquadrano e colpiscono reporter con la scritta “PRESS” stampata a lettere cubitali sul giubbotto. Cecchini che mirano alla testa. Attacchi “mirati” che colpiscono le loro case, anche quando sono lontani dalla linea del fronte.
Secondo il Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ), dal 7 ottobre 2023 a oggi sono stati uccisi oltre 178 operatori dei media solo nella Striscia di Gaza.
È il conflitto con il bilancio più alto di giornalisti assassinati da quando esistono statistiche.
Un’ecatombe silenziosa. Una strage mirata.
Molti di loro erano palestinesi. Alcuni freelance. Tutti testimoni. Tutti diventati bersagli.
Io la guerra l’ho vista da vicino.
Non nei salotti delle redazioni, ma dentro la polvere e il fango. Ci ho dormito accanto, ci ho riso e pianto, e ho visto colleghi saltare in aria per una diretta.
Gente che non portava armi, ma obiettivi fotografici. Che non faceva propaganda, ma domande.
Come Eman El-Shanti, giornalista radiofonica a Gaza, madre di tre figli, uccisa in un raid israeliano insieme al marito e ai suoi bambini. La conobbi nel 2019: voce limpida, mente acuta, parlava tre lingue e aveva un microfono come unico scudo.
Come Mazen Saady, reporter siriano che mi accompagnava nei pressi di Idlib. Ferito con me durante un bombardamento nel 2021. Il suo unico crimine? Raccontare.
E allora basta ipocrisie.
Quando lo fa Putin è un criminale, e giustamente.
Ma quando lo fa Israele o lo fanno gli Stati Uniti, diventa “strategia”?
No.
Uccidere chi documenta non è strategia. È censura con la mitraglia.
È la soppressione della verità nel momento in cui serve di più.
È l’equivalente moderno del rogo dei libri, ma con corpi al posto della carta.
Perché ogni giornalista che cade, porta con sé una storia non raccontata.
Ogni telecamera spenta è una finestra chiusa sul mondo.
Ogni cronista assassinato è una democrazia che si incrina, una verità che non verrà mai più detta.
E noi che restiamo, abbiamo un dovere: parlare. Gridare. Scrivere.
Fino a farli vergognare del silenzio.
Fino a restituire un volto e un nome a chi voleva solo raccontare.