C’è chi scioglie i nodi, chi le riserve. E chi i bambini nell’acido
di Massimo Reina
Giovanni Brusca, alias “u verru”, il porco. Uno che si è autoaccusato — con una certa fierezza, va detto — di oltre 150 omicidi, incluso quello più infame, quello che neanche nei gironi più bassi dell’Inferno dantesco era stato immaginato: il piccolo Giuseppe Di Matteo, tredici anni, strangolato e poi sciolto nell’acido per vendetta mafiosa.Un sadico. Un mostro. Un esecutore meccanico della morte.
E oggi, udite udite, è un uomo libero.
Non si tratta di una svista.
Non è una finta notizia lanciata da qualche sito cospirazionista.
È accaduto davvero, ed è accaduto legalmente. Perché la legge, ci ripetono, va rispettata.
Appunto: rispettata. Non stuprata.
Brusca è lo stesso che nel 1992 schiacciò il tasto del telecomando, trasformando un’autostrada italiana in un cratere libanese. La strage di Capaci, Falcone, la Morvillo, la scorta.
Poi ci fu Borsellino. Poi tutto il resto.
Poi le trattative, i pizzini, le amnesie istituzionali.
Ora, dopo 25 anni (di cui gli ultimi quattro a spasso sotto protezione), Brusca ha ufficialmente salutato il carcere, con tanto di inchino al diritto penale. Lo chiamano “pentito”. Che bel termine, eh? Evocativo, quasi biblico. Ci aspetteremmo un uomo affranto, che si flagella ogni notte col rosario tra le mani.
Invece ci ritroviamo un professionista del delitto, che ha fatto i conti e ha scelto la scorciatoia della collaborazione: tu mi dai la libertà, io ti do la mappa di Cosa Nostra.
Baratto avvenuto.
Affare concluso.
Certo, Brusca ha parlato. Ha rivelato verità importanti. Ha contribuito ad arresti. Ma — e qui il punto che i giuristi del “ma la legge prevede” non vogliono mai affrontare — la giustizia non è un algoritmo penale, è anche simbolo, memoria, rispetto delle vittime.
E a Tina Montinaro, vedova del capo scorta Antonio, nessun algoritmo giuridico potrà mai spiegare perché lei piange ancora un cadavere e lui passeggia da uomo libero.
Brusca ha dato. Ma ha anche avuto. Eccome se ha avuto.
Forse oggi vive sotto falso nome, in qualche località protetta, a spese nostre. Forse ha un vitalizio, o magari gestisce un’azienda intestata. Magari, chissà, tra un po’ lo scopriremo opinionista in qualche talk sulla legalità.
Siamo un Paese in cui la mafia è ancora viva, anche se gli italiani fanno finta di non vederla.
Un Paese in cui i carnefici escono, e i morti, come dice Giuseppe Costanza (l’autista sopravvissuto alla strage), restano sotto terra per sempre.
Un Paese in cui il 23 maggio, mentre si anticipava maldestramente un minuto di silenzio, qualcuno preparava la liberazione del boia.
E la cosa più oscena è il tono burocratico con cui si comunica la notizia. “Nessun privilegio, ha scontato la pena, ha collaborato.”
Già. Come se sciogliere un ragazzino nell’acido fosse un incidente amministrativo da archiviare con una firma in calce.
Come se la libertà fosse una formula matematica, anziché una questione morale.
In tutto questo, lo Stato, quello vero, quello dei Falcone, dei Borsellino, dei Livatino, dove sta? Si è sciolto pure lui? Magari nell’acido, accanto a Giuseppe Di Matteo?
PS. Ai teorici della “riabilitazione”, un consiglio: leggete i verbali di Brusca.
Poi provate a guardare negli occhi i figli delle sue vittime.
Se ci riuscite.